venerdì 27 maggio 2011

"Quell'Hitler con ciuffo e voce rabbiosa". Dall'entusiasmo alla diffidenza: come gli ambasciatori del Duce a Berlino raccontarono il nazismo

di Mario Avagliano

Germania, primavera del 1945. In una Berlino lunare, trasformata in un cumulo di macerie dai bombardamenti alleati, un elegante palazzo color rosa, “insieme sontuoso e squadrato”, resiste impavido agli ordigni. È la sede dell’ambasciata italiana, dove opera l’incaricato del duce Filippo Anfuso, ultimo ambasciatore di quel che resta dell’Italia fascista, nata dalla divisione in due della penisola dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943. Inizia in quel luogo-simbolo, in mezzo alle rovine del Terzo Reich, il bel saggio del salernitano Gianluca Falanga, L’avamposto di Mussolini nel Reich di Hitler. La politica italiana a Berlino 1933-1945 (Marco Tropea Editore, pagg. 512, euro 23).

Come nacque la “brutale amicizia”, come la definì lo storico inglese Frederick William Deakin, tra Hitler e Mussolini? Il libro racconta, con ricchezza di fonti, i rapporti diplomatici tra Italia e Germania e la complessa liasion tra il fascismo e il nazismo, due regimi totalitari “fratelli” ma privi di vera fiducia reciproca. Un racconto che si dipana attraverso i documenti e le memorie dei quattro ambasciatori del nostro paese a Berlino: Vittorio Cerruti, Bernardo Attolico, Dino Alfieri e Filippo Anfuso. Ai quali si aggiunge il maggiore Giuseppe Renzetti, espressione della «diplomazia parallela» di Mussolini presso le destre tedesche, del quale si era già occupato Renzo De Felice nel suo saggio Mussolini e Hitler, i rapporti segreti (1922-1933). Uomini assai diversi per formazione, cultura, senso dello Stato, che rappresentarono le differenti fasi dell’abbraccio, col tempo sempre più stretto, tra l’Italia e la Germania.


I retroscena dei rapporti tra Italia e Germania sono tuttora oggetto di studio. Pochi sanno che l’ascesa di Hitler al vertice del Reich nel ’33 non fu salutata con entusiasmo dal fascismo italiano. Mussolini a lungo rifiutò di ricevere l’ex imbianchino austriaco “col ciuffo di capelli sulla fronte e la voce rabbiosa”, che pure lo ammirava e si era ispirato a lui, con scrupolo quasi maniacale, nell’organizzazione dello Stato e della società tedesca: stesso nazionalismo, stesso culto della guerra, stessa glorificazione del capo. Il primo incontro tra i due avvenne solo nel giugno 1934, a Venezia, e allora - come ha scritto Nicola Caracciolo - “Mussolini era il padrone, Hitler il vassallo”. Tempo qualche anno, i rapporti si sarebbero rovesciati.


La diffidenza del duce era acuita dalle relazioni negative del nostro ambasciatore a Berlino, Cerruti, sposato con un’ebrea, all’inizio simpatizzante di Hitler, ma già nell’autunno del 1933 diventato avversario del nazismo, per i provvedimenti antisemiti da questo adottati e per i tentativi di annessione dell’Austria, contrari agli interessi italiani. Così, quando nell’estate del 1935 Mussolini riallacciò i rapporti con la Germania, in conseguenza della rottura dell’Italia con la Società delle Nazioni dovuta alla guerra di Etiopia, Hitler chiese la testa di Cerruti.


Il suo successore Attolico, ex ambasciatore a Mosca, era fautore della salda collaborazione fra Roma e Berlino, al pari del conte Galeazzo Ciano, genero del duce ed esponente dell’ala filo-tedesca del fascismo, a cui era stata affidata a partire dal ’36 la direzione del Ministero degli Esteri. Questa nuova stagione della nostra diplomazia sfociò nella stipula del Patto d’Acciaio tra Italia e Germania nel maggio 1939. Ma a contatto con la realtà del nazismo, anche Attolico mutò giudizio nei confronti di Hitler. Tanto da essere rimosso, per esplicito desiderio del Führer, alla fine di aprile del 1940, poco prima che l’Italia entrasse in guerra. Ad Attolico venne assegnata la sede del Vaticano e il suo commento fu laconico: «Dal diavolo all’acqua santa».


La scelta del nuovo ambasciatore cadde su Dino Alfieri, esponente del partito fascista sul quale Hitler in persona aveva espresso il suo gradimento e che resse con estremo grigiore l’ambasciata berlinese fino alla caduta di Mussolini nel luglio del ‘43. L’ultimo diplomatico fascista fu Filippo Anfuso, ex capo di gabinetto di Ciano, che ebbe il compito di rappresentare il regime-fantoccio di Salò e nel dopoguerra fondò il Movimento Sociale Italiano. Erano gli ultimi mesi di un’alleanza infausta, che aveva scatenato una guerra mondiale, provocando milioni di morti e l’orrore della Shoah.


(Il Mattino, 27 maggio 2011, pagina 19)


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