di Claudio Vercelli
Che il tempo stia inesorabilmente trascorrendo ci è segnalato, tra le tante cose, dalla scomparsa dei testimoni della deportazione. Così per la morte di Rudolf Brazda, l’ultimo «triangolo rosa» ancora in vita, già prigioniero a Buchenwald, di cui ci dicono il Messaggero e Alberto Mattioli su la Stampa.
Brazda, di famiglia boema, era nato tuttavia in Sassonia nel 1913. Il clima di tolleranza della Repubblica di Weimar lo aveva indotto a stabilirsi definitivamente in Germania, paese dal quale era poi stato espulso, con l’ascesa dei nazisti al potere, dopo avere scontato una pena detentiva per «depravazione contro natura» (bel sofisma), ovvero in ragione della sua omosessualità. Riparato in Cecoslovacchia, con l’annessione dei Sudeti al Terzo Reich, la separazione dalla Slovacchia e la riduzione della parte restante del paese ad un protettorato germanico, aveva vissuto per l’ennesima volta un’esistenza difficile, fino al nuovo arresto, nel 1941. Dopo di che le porte del Lager si erano aperte anche per lui, destinato ai deliranti esperimenti medici ai quali sopravvisse per quella miscela di caso e di fortuna che a pochi permise di non perire atrocemente come, altrimenti, capitò per la quasi totalità degli internati. Scampato agli ultimi, devastanti giorni dei campi di concentramento, nel dopoguerra, trovato un nuovo compagno con il quale condividere la sua esistenza, si dedicò a lavori manuali, umili e semplici quanto sapeva essere evidentemente il suo carattere. Divenuto cittadino francese, a oramai tarda età, nel 2008, ospite di una casa di riposo, venne a sapere che a Berlino sarebbe stato inaugurato un monumento in memoria degli omosessuali deportati nei Lager nazisti. Fu in quel caso che raccontò la sua passata vicenda, assumendo così una notorietà pubblica che negli anni della sua giovinezza come in quelli della maturità non aveva in alcun modo cercato. Si chiude così il cerchio di un’altra esistenza novecentesca, che ci interroga sul lascito del passato.
(InfoUcei, 5 agosto 2011)
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