venerdì 23 marzo 2012

Le "Voci dal lager" e la nostra amnesia collettiva

di Annamaria Barbato Ricci

Il volume di Avagliano e Palmieri, edito da Einaudi, un affresco corale di dolente intensità
Leggere questo libro, assisterne alle presentazioni (ne ho partecipato a due, entrambe molto toccanti) e poi ritornare nel contraddittorio quotidiano, con i suoi drammi sul nulla, produce una consapevolezza: “Quanto siamo fortunati!”.Un vergognoso sollievo, perché siamo esseri umani, dunque contrassegnati dalla cifra dell’egoismo, di un piccolo mondo impregnato di presente. Ed invece “Voci dal lager – Diari e lettere di deportati politici 1943 – 1945” di Mario Avagliano e Marco Palmieri (Einaudi) ci induce a fare i conti con noi stessi, con la nostra “fortuna” di essere nati dopo la grande follia bellica, da genitori e nonni che l’avevano vissuta, vi erano sopravvissuti – qualcuno persino tornando dal lager – ma avevano adottato, come per un corale, sotterraneo accordo, un atteggiamento di amnesia collettiva, una scelta di “negazione del ricordo”.

Ad influirvi, forse, c’erano le urgenze della ricostruzione e, ancora, si pensava (neanche consciamente) che, cambiando forma istituzionale e accedendo alla democrazia si aveva il viatico per voltar pagina. E poi c’era il peso di una colpa rinnegata: quella di aver permesso, come popolo, come singoli che tutto ciò avvenisse. Si è ricorsi al comodo alibi dell’altrui giogo (l’occupazione tedesca, il nazismo ed anche il fascismo) ed a Piazzale Loreto si potrebbe aver “celebrato” una sorta di sacrificio di ripartenza, del nuovo da riscrivere completamente.
Sono pensieri personali, i miei: non ho l’autorevolezza di una storica, non ho studiato tante delle discipline che autorevolmente sorreggerebbero questa mia interpretazione – o, invece, ne dimostrerebbero l’infondatezza -.
Questi scritti, raccolti e collazionati da Avagliano & Palmieri, però, corroborano questa tesi. Non si spiegherebbe altrimenti perché la testimonianza dei tanti che non son tornati più e dei pochi che hanno fatto ritorno non avesse reso consapevole il Paese di un fatto incontrovertibile: era un atto mistificatorio attribuire a nazisti, fascisti e repubblichini la responsabilità di una tragedia collettiva, dove il ruolo di carnefice e vittima era labile e scambievole. Tali concetti, però, portano troppo lontano i nostri pensieri, dunque torniamo al fulcro del discorso ossia il libro.
Esso ha un merito, innanzitutto: restituisce alla coscienza collettiva che, per autodifesa, l’aveva esiliata ai propri confini, la consapevolezza di quanto sia costato, in termini di dolore, orrore, persino speranza insieme a disumanizzante umiliazione, l’essere qui oggi.














Il percorso del martirio affrontato da quegli scheletri ancora con un soffio di vita dentro che le truppe alleate ritrovarono nei lager – ma ancora di più le ombre di coloro che vi erano morti, risultanti dai registri, uccisi da malattie, fame, stenti, camera a gas e cremati per supremo oltraggio – ci viene restituito da quest’opera con tutta la sua valenza di orribile realtà e in virtù di esso ci troviamo a fare i conti con la nostra coscienza individuale.
Le testimonianze raccolte in poche righe o in scritti più articolati, compilate con la consapevolezza di compiere un atto proibito; oppure le lettere forzatamente neutre sui moduli dei campi – in particolare quelli operanti in Italia come Fossoli, Bolzano, la mortale Risiera di San Sabba – o dei penitenziari di transito; i biglietti lanciati dai convogli della deportazione e che pietosi cittadini faceva giungere a destino sono tanti atti d’accusa verso la bestialità di quegli anni e di quel conflitto.
Donne ed uomini dediti alla religione della libertà (dunque, perciò “criminali” politici) – una minoranza rispetto alla popolazione prona alla dittatura, per complice convinzione, per autodifesa – narrano, ognuno col proprio tassello di esperienza personale, un quotidiano fatto di abiezione, di disumanizzante prigionia; sembra il cammino nell’inferno che diventa via via più impossibile persino da immaginare per noi di un XXI secolo pieno di agi, vuoto di ideali e di speranze.
Vorrei dare qualche esempio degli scritti raccolti dagli Autori/Curatori con un’ammirevole capacità di “cucire” le diverse testimonianze e le storie personali dei mittenti o titolari dei diari.
Mi trovo di fronte all’imbarazzo della scelta, alla frustrazione di dover privilegiare la voce di uno rispetto ad un altro dei 130 protagonisti della raccolta, fatto che contravviene al carattere corale e “democratico” dell’opera. Pertanto lascio ai lettori la scena di approfondire la messe di scritti raccolta e abilmente ricondotta ad unico affresco d’umana sventura, ma anche ad una coraggiosa testimonianza di pace e di libertà.
L’itinerario adottato è composito e completo: gli scritti riportati riguardano la cattura ed il carcere; la situazione nei tre lager italiani, articolata ne’ la vita nel campo ed i lavori forzati, la fame, i pacchi e la posta, gli affetti familiari e le lettere d’amore; si focalizzano poi gli ideali, l’amor di patria e la fede.
Cambia scena, c’è chi viene condannato alla deportazione in Germania: ecco allora i diversi capitoli sulla partenza e il viaggio verso il territorio tedesco, con la disperazione assoluta rappresentata dai biglietti dalle tradotte; seguono gli scritti dalle carceri naziste e dai lager.
Il sollievo, la gioia, la proposizione per adoperarsi per un’Italia rinata e per la sua libertà sono i protagonisti degli scritti riguardanti la liberazione ed il ritorno a casa. In appendice, poi, vi è un saggio sui lavoratori coatti, ovvero quelli casualmente rastrellati e deportati in Germania per sostenerne la produzione nello sforzo bellico.
Un testo, dunque, vario e dolente, ma anche incoraggiante, per la speranza che seppero esprimere quei martiri per un mondo migliore (che dovrebbe essere il nostro). I have a dream: che questo volume diventasse lettura obbligatoria nelle scuole superiori quanto la Divina Commedia. Perché la sua lettura contribuirebbe più di qualsiasi altra a formare una nuova coscienza nelle giovani generazioni, oggi sottoposte ai richiami fascinosi di cattivi maestri che vogliono immettere dottrine così pericolosamente simili agli estremismi fascisti e nazisti che sono stati i responsabili di quella tragica piaga dell’umanità.

(L'Indro, 14 marzo 2012)

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