di Roberto ChiariniDai «figli di stronza» di Elio Vittorini ai «quindicenni sbranati dalla primavera» di Francesco De Gregori, passando per i «non uomini» segnati dal «marchio di Caino» per finire con gli «esuli in patria» figli di nessuno: il destino di chi ha aderito alla Repubblica sociale è stato di reprobi sul piano morale e di feroci persecutori dei partigiani su quello politico.
Insomma, ha oscillato a lungo tra il «disconoscimento totale» della loro umanità e la taccia di essere «gregari» di un «regime fantoccio» al servizio dello straniero occupante, fautore di una causa aberrante che riservava un futuro di schiavitù e di oppressione ai popoli dell'intera Europa. Risultato: non solo nel dibattito politico ma anche nella considerazione storiografica, sui «ragazzi di Salò» ha gravato un pesante cono d'ombra fatto di silenzio e di disprezzo. Esattamente quel che si meritano dei sanguinari che non si sono fermati di fronte al baratro di una guerra fratricida in cui avrebbero cacciato il proprio Paese pur di soddisfare la loro sete di violenza.
Ci sono voluti, prima le possenti spallate inferte da Renzo De Felice al pregiudizio che riduceva il fascismo a regime dittatoriale imposto di forza a un popolo di democratici, poi il coraggioso cambio di passo impresso agli studi sul Ventennio da Claudio Pavone con lo sdoganamento della categoria storiografica di guerra civile per liberare la considerazione dei «Balilla che andarono a Salò» dal vizio della loro demonizzazione. Stiamo parlando praticamente dell'intera generazione dei nati nel 1924 e '25. Se infatti si sommano ai volontari i giovani chiamati alla leva che o per un'atavica sudditanza all'autorità costituita o per un malinteso spirito di servizio o per un più elementare, comprensibile desiderio di sfuggire alla pena di morte riservata ai renitenti, si raggiunge la somma di più di 500mila ragazzi che alla fine misero comunque in gioco la loro vita per una causa che, bene o male, sapevano persa in partenza.
Al confino morale e politico comminato loro dai vincitori si è paradossalmente sommato il cieco spirito di rivalsa dei «vinti» e dei loro epigoni, cui il rancore ha fatto velo a un'auspicabile rielaborazione critica della «scelta sbagliata» da loro compiuta.
Ora di questo vasto e variegato mondo di vinti disponiamo di un'opera sistematica. Sulla scorta di un'accurata investigazione di fonti archivistiche edite e inedite nonché della cospicua letteratura accumulatasi nel frattempo in materia, Mario Avagliano e Marco Palmieri con il saggio
L'Italia di Salò. 1943-1945 (Il Mulino, pagg. 490, euro 28) ci mettono in condizione di articolare un giudizio sull'argomento a ragion veduta.