di Mario Avagliano
L’Unità d’Italia conta centocinquant’anni. Ma restano ancora aperte Tre questioni sul percorso di un’unità difficile, come recita il titolo della prolusione pronunciata da Giuliano Amato, presidente del comitato di celebrazione del 150°, all’Accademia dei Lincei a Roma. “Aldo Moro - afferma Amato - diceva che la politica non può che lasciare sempre un senso di incompiutezza. Questo vale anche per il Risorgimento”.
Presidente Amato, il 7 gennaio a Reggio Emilia hanno preso il via le celebrazioni del centocinquantenario dell’Unità d’Italia. Si è partiti col piede giusto?
E’ una sorta di fortuna che la Repubblica Cisalpina avesse adottato il Tricolore proprio il 7 gennaio del 1796, che cade all’inizio dell’anno e quindi si è prestato in modo mirabile a simboleggiare il senso di una celebrazione, peraltro già iniziata nei mesi scorsi.
Che significò il Risorgimento per l’Italia? Solo il passaggio da un passato di frammentazione e di staterelli a una realtà unitaria o anche un sogno, una speranza di costituzione, di diritti civili, di democrazia liberale?
Fu la realizzazione di un grande sogno, che partiva dal Medioevo. Anzi, per la verità furono più sogni che confluirono nel processo che portò all’unità, anche se alcuni di essi restarono inappagati. Tanto è vero che da allora l’Italia che abbiamo è sempre stata “affiancata” da un’altra Italia, migliore di lei, e la nostra storia è stata considerata una sequenza di occasioni perdute.
A torto o a ragione?
E’ uno dei nodi storiografici che vanno affrontati. Ancorché l’Italia nata dal Risorgimento fosse un po’ bruttina (Carducci scrisse: “brutti i francobolli, brutte anche le divise dei soldati”) e apparve rapidamente come l’Italietta, io penso che fosse l’unica storicamente possibile. Non sono d’accordo con chi ha ritratto Cavour come un politico manovriero, abile solo nei giochi delle tre carte. Anche Cavour ebbe il suo sogno: costruire uno spazio nazionale nel quale rendere possibile la modernizzazione di un Paese arretrato. Questo, seppure a balzelloni, è avvenuto.
La seconda questione è l’incompiutezza del processo unitario tra Nord e Sud d’Italia.
Si tratta di capire se aveva ragione Nitti quando sosteneva che l’unificazione rese arretrato il oppure se sia stato il Sud a rovinare l’Italia, come pensano sopra il 48° parallelo. Io penso che l’arretratezza del già al tempo dei Borbone sia un fatto storicamente acclarato. Ciò non toglie che l’Italia unificata non abbia cancellato quella arretratezza. Dal 1861 ad oggi sono stati fatti dei passi in avanti (penso alla prima Cassa del Mezzogiorno) e tuttavia, anche se vi sono aree del Sud fortemente sviluppate, se andiamo a guardare ai dati aggregati la questione meridionale appare irrisolta.
Perché?
Le spiegazioni possibili sono tante. Le scelte di politica industriale che furono fatte. Le caratteristiche della classe dirigente del e una sua certa inclinazione al clientelismo. Il dramma di una criminalità organizzata che è diventata una multinazionale ma continua ad avere casa al Sud. Purtroppo ci sono più spiegazioni che soluzioni.
A proposito di Nord e Sud, è in discussione anche la ricostruzione storica del processo di unificazione. Nel suo saggio “Terroni” Pino Aprile ha paragonato i piemontesi ai nazisti per la violenza dell’occupazione. E Pierluigi Battista ha invitato lei e il comitato del 150° a recarvi nei luoghi delle stragi compiute dai Savoia, come Pontelandolfo nel Beneventano.
La lotta al brigantaggio finì col coinvolgere anche coloro che briganti non erano e comportò violenze inaccettabili, da conquista coloniale. Gli episodi come quello di Pontelandolfo vanno ricordati: la storia non può essere scritta dai vincitori. Di certo però il non è stato conquistato. Il Sud non è entrato in Italia solo grazie alla spedizione dei Mille di Garibaldi, ma è stato protagonista di tutto il processo unitario, dal 1799 al 1861. Le matrici del sentimento nazionale affondano le radici in personaggi meridionali come Francesco Mario Pagano, Vincenzo Cuoco, Rosolino Pilo, Filippo Cordova, Carlo Pisacane. Ad esempio Cuoco e Cordova furono tra i primi a porre la questione della riforma agraria.
Il terzo nodo da lei individuato è quello dell’identità nazionale. Ernesto Galli della Loggia ha parlato di fragilità del sentimento nazionale.
Questo non significa che sia utile metterlo da parte. Diffido da chi attribuisce all’identità nazionale una dimensione storica superata, ottocentesca, in nome di identità più vaste, come fa Alberto Banti. Povero Mazzini, così gli si rende un pessimo servizio! Proprio a lui, che riteneva che la Nazione italiana dovesse essere costruita in funzione di una federazione europea. È un errore anche far coincidere il sentimento nazionale con l’etno-nazionalismo. Vi sono Nazioni che sono state costruite sull’etnia, ma l’Italia non è tra queste. L’identità del nostro Paese regge sulla cultura e sui principî e per questo motivo è in grado di integrare anche chi non appartiene all’etnia italiana. Anzi, sarebbe il caso di rivedere il concetto di una cittadinanza ancorata allo ius sanguinis, che è una contraddizione con la nostra storia e la nostra cultura.
Gian Enrico Rusconi, qualche anno fa, in un celebre saggio si chiedeva se l’Italia ha cessato di essere una nazione. Quanto ha pesato nel rifiuto della Nazione da parte degli italiani e delle classi dirigenti la retorica nazionalista del Ventennio fascista?
Tantissimo. Il nazionalismo aggressivo del fascismo, che negli ultimi anni assunse addirittura carattere etnico, ha rappresentato il vero tradimento del Risorgimento. La partecipazione al secondo conflitto mondiale al fianco di Hitler è considerato il più grave delitto del fascismo, ma a mio avviso non lo è di meno l’emanazione delle leggi razziali, cioè l’aver definito dei nostri connazionali “non italiani”, con capacità giuridica limitata. Ciò ha contribuito fortemente a lacerare il sentimento nazionale.
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