mercoledì 6 aprile 2011

La persecuzione degli ebrei scritta con le parole delle vittime: una storia tutta italiana da indagare

di Annabella Gioia 

La persecuzione degli ebrei scritta con le parole delle vittime. Ma non solo. Gli ebrei sotto la persecuzione in Italia (Einaudi, 390 pagine, euro 15) di Mario Avagliano e Marco Palmieri è un’antologia di voci ebraiche – per riprendere l’espressione di Sarfatti nella prefazione -, ma è anche un percorso storico che a partire dalla specificità della fonte – lettere, diari, messaggi – ci restituisce tutto il dramma della deportazione, un dramma ricostruito attraverso una memoria coeva e quindi nell’attualità degli eventi.
Questo mi sembra il primo merito del lavoro, perché riportare gli scritti di quel periodo significa utilizzare fonti storiche, fare riferimento ad una memoria autentica, non rielaborata dal tempo e dalle vicende successive. Un aspetto importante se si considera come sia cresciuto in questi ultimi anni il ruolo della memoria nell’indagine storica, e con essa la difficoltà a distinguere e farne un buon uso.
Il secondo merito del libro è l’aver ricostruito per intero la storia della persecuzione antiebraica italiana, dall’emanazione delle leggi del 1938 fino al suo saldarsi con il progetto e il meccanismo  messo in atto dal nazismo per la distruzione degli ebrei in Europa.
Un racconto che getta molta luce sulle responsabilità del regime e di parte della società, che permette di capire quanto sia infondato quel mito di “italiani brava gente” sul quale per troppo tempo il nostro paese ha cercato di rimuovere per non fare i conti con il suo passato.
E’ invece sufficiente scorrere l’indice del libro per capire la politica fascista e le sue responsabilità. L’ordine - cronologico e tematico - con il quale sono state scelte e raccolte le memorie, serve proprio a far luce su tutto il percorso, dalla campagna di propaganda antisemita all’internamento, dalle prime razzie alla caccia all’uomo, ai viaggi verso i lager, allo sterminio e al difficile ritorno.
Una storia tutta italiana da indagare e ricordare, compresi i nomi dei campi in territorio italiano da quelli più noti come Fossoli, Borgo San Dalmazzo, Ferramonti e la Risiera di san Sabba a quelli meno noti come Urbisaglia o Tortoretto. Su tutti sono importanti i lavori e le ricerche fatte in questi ultimi anni da Spartaco Capogreco o da Costantino Di Sante.
Ma c’è ancora un altro elemento del libro che vorrei sottolineare: ciascun messaggio, che sia diario o lettera, rimanda ad una breve nota a fondo pagina che fornisce notizie essenziali sull’autore dello scritto. Una nota che intende andare oltre la correttezza filologica in quanto le informazioni, sia pure scarne, raccontano  molto del protagonista, dell’età, della sua vita prima e dopo il ’38, della sua deportazione e del suo destino. Sono dati che rendono ancora più intensa e partecipe la lettura di quel messaggio conoscendo quindi l’epilogo e la vicenda di chi l’aveva scritto.
Il volume si apre con un’introduzione che delinea il contesto storico generale in cui si sono consumate quelle storie di vita. Dalla propaganda antisemita alla schedatura degli ebrei, dalle leggi del ’38 con le prime forme di emarginazione e di perdita dei diritti fino alla persecuzione.
Nel diario di Vittorio Pisa, ad esempio, già nell’agosto del ’38 si può leggere: “la cappa di piombo è pesante e si fa sempre più pesante” e poi parla delle giornate tutte uguali “improntate a una morte lenta”. Ancora prima, nel gennaio dello stesso anno Gino Luzzatto scriveva: “son vissuto sempre nell’illusione che l’uguaglianza fosse ormai una conquista definitiva”. 
In seguito, dopo l’arresto di Mussolini, c’è la delusione per la mancata revoca delle leggi  razziste durante i 45 giorni del governo Badoglio.
Grande è la solitudine per gli ebrei italiani che si sentono traditi dalla loro patria, erano stati ferventi patrioti, spesso combattenti valorosi nella prima guerra mondiale, talora convinti fascisti, come si può leggere sempre dal diario di Vittorio Pisa: “Montata oggi la guardia al Sacrario dei Caduti fascisti.. ho contemporaneamente avuto la notifica della mia cessazione di fascista”.
Per tutti resta il senso del tradimento e, come scrive Emma De Rossi: “L’Italia ci ha rinnegato” ma, dopo il 25 luglio dice con fierezza: “Mussolini è caduto e noi siamo sempre vivi. Cadrà anche Hitler! Non so quando, ma certo prima di Israele!”.
E poi c’è lo stupore di Luciano Morpurgo: “mai avrei potuto pensare che da noi, nella civile e gentile Italia ‘madre delle genti’, potesse allignare la triste pianta dell’antisemitismo”.
Per chi comprende per tempo l’entità del pericolo ci sono solo le partenze, le dispersioni di famiglie e talora la scelta estrema del suicidio.
Sono storie di fughe, di paura, di dolore, le lettere di chi è emigrato all’estero sono piene di disperazione, una dall’Australia parla della immensa solitudine e parla di quell’abisso che la divide dalla vita passata, “un paradiso in confronto al presente”.
Agli ebrei stranieri, anche se da decenni in Italia, non resta che l’angoscia dell’essere senza patria, pertanto esposti subito all’internamento e alla deportazione.
Gli internati italiani nel campo di Briga e Berna vivono sotto la minaccia di essere rimandati indietro. Ci sono storie di passaggi del confine a piedi con l’aiuto spesso dei contrabbandieri, nei campi di raccolta si scoprono storie di fughe disperate e di esiti incerti, ma si scopre anche il lavoro della Delasem o di altri organismi per l’aiuto agli ebrei in fuga.
Così scriveva Lea Ottolenghi rifugiata a Bellinzona: “quanti tragici racconti ho sentito. C’è chi è arrivato proprio senza niente, chi ha camminato per giornate intere nelle montagne, alcuni sono arrivati con le mani o i piedi congelati ed altri, i cui familiari sono stati rimandati indietro.”
Non mancano le delazioni e le complicità con il regime, e le schedature predisposte fin dal ’38 facilitarono la cattura e la deportazione degli ebrei dopo l’8 settembre ’43 quando, con l’occupazione nazista, iniziarono i primi eccidi, le retate e la caccia all’uomo, con la collaborazione attiva delle bande fasciste e con la complicità di prefetture, questure e polizia.
Il diario di Rosina Sorani, impiegata della Comunità ebraica di Roma, ci restituisce la cronaca del 16 ottobre, una ferita per tutta la città, che né la consegna dei 50 chili d’oro né la razzia nella biblioteca della Comunità riuscirono ad impedire.
Dall’inizio del ’44 si moltiplicano gli arresti singoli per iniziativa dei fascisti e della Repubblica sociale italiana, con la confisca dei beni, basti ricordare l’ordine di polizia di Buffarini Guidi che disponeva la deportazione di tutti gli ebrei senza distinzione.
Con profondo senso di angoscia si leggono i racconti delle partenze verso la destinazione ignota dei lager nazisti; che si tratti di lettere da Fossoli o da altro campo di transito si coglie la impossibilità di  immaginare quel destino e con essa la forte volontà di sperare il ritorno.
Scrive Ada Michelstaedter in partenza da Fossoli, uccisa poco dopo l’arrivo ad Auschwitz: “Dunque sembra che si parta noi misti assieme agli inglesi per Verona…. Se come probabile si sarà destinati per un campo di concentramento auguriamoci sia per uno in Italia, parlano anche di eventuale confino, oppure di una liberazione, beati chi ci crede.”
Un capitolo del libro è dedicato agli ebrei nella Resistenza, una presenza spesso ignorata, basti ricordare i nomi di Primo Levi e Luciana Nissim che vennero presi come partigiani. Spesso sono giovani, come Gianfranco Sarfatti, ucciso in battaglia a 23 anni, che così spiega ai genitori, nell’agosto del ’44, la sua scelta: “il mio modo di vivere e il perché del mio vivere da molti mesi non cerca di essere che un tuffarsi nell’umanità, partecipando alla sua vita, dura o lieta che sia.”
Se questa è una scelta consapevole la giovane età di Franco Cesana, 13 anni, lo porta in montagna quasi per istinto, ma determinato ad entrare in una formazione partigiana, e in montagna verrà poco dopo ucciso. Questa è la spiegazione della sua scelta in una lettera alla madre. “Ti do un dettagliato racconto della mia avventura: partii così all’improvviso senza sapere io stesso che cosa stavo facendo”.
Finita la guerra con l’apertura dei campi c’è, per chi è sopravvissuto, il ritorno a casa, sono viaggi lunghi e dolorosi nella difficile ricerca di una vita normale. Di questo ci hanno parlato Primo Levi, Lidia Beccaria Rolfi e molti altri. Era difficile raccontare e essere ascoltati, c’era il dolore per chi era scomparso, per la dissoluzione delle famiglie e per quella solitudine che accompagnerà molti per il resto della loro vita. Ma c’era anche la consapevolezza di quella cesura terribile rappresentata dalla Shoah, ce lo dice Bruno Salmoni che nel suo diario commenta con queste parole la notizia della morte di Hitler nel maggio del ’45: “E’ morto troppo tardi, senza che la sua morte potesse portare il minimo beneficio all’umanità; si è spento come un mostro da fiaba, dopo che ormai tutto il veleno di cui era capace aveva prodotto i suoi terrificanti effetti sulla umanità intera”.
Un pensiero denso di significato e sul quale dovremmo riflettere ancora oggi.

(Patria Indipendente, n. 2-3, marzo 2011)


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