venerdì 1 aprile 2011

Nell'Italia appena unita l'idea di deportare al Borneo i briganti

di Mario Avagliano
“Se ci ponessimo in Italia ad applicare la pena di morte con un’implacabile frequenza, se ad ogni istante si alzasse il patibolo, l’opinione e i costumi in Italia vi ripugnerebbero (…). Bisogna dunque pensare ad aggiungere alla pena di morte un’altra pena, quella della deportazione, tanto più che presso le impressionabili popolazioni del Mezzogiorno la pena della deportazione colpisce più le fantasie e atterrisce più della stessa morte”. Così scrive nel 1872 il ministro degli Esteri del Regno d’Italia, il milanese Emilio Visconti Venosta.

Roma è diventata capitale da appena due anni e l’Italia unita muove con difficoltà i suoi primi passi, alle prese con il fenomeno del brigantaggio, un mix di rivolta sociale, politica ed economica che assume i contorni di una vera e propria guerra civile.  È questo il contesto in cui il governo matura l’idea di deportare i prigionieri dall’altra parte del mondo, come ci racconta il bel libro del giornalista Giuseppe Novero I prigionieri dei Savoia. La storia della Caienna italiana nel Borneo (Sugarco, pagine 168, euro 18). Un deterrente per reprimere gli oppositori del nuovo ordine sabaudo e i nostalgici dei Borbone, così come i delinquenti comuni e i renitenti alla leva che si sono aggregati ai briganti.
Le missioni per individuare l’”angolo di terra” dove confinare i detenuti italiani furono diverse e si protrassero per quasi dieci anni: tra il 1862 e il 1873 le corvette della Marina perlustrarono mari e luoghi esotici, dal Mar Rosso alla Patagonia e alla Tunisia, fino all’ipotesi dell’isola del Borneo, dove il governo aveva intenzione di creare una vera e propria Caienna per i meridionali. Una colonia penale, capace – chiede nel 1869 il presidente del Consiglio Luigi Federico Menabrea – di ospitare “almeno dieci o quindicimila deportati” e di fornire “per la fertilità o per altre produzioni naturali del paese” i mezzi necessari di sussistenza.
Il progetto, affidato al comandante Carlo Alberto Racchia e alla sua nave Principessa Clotilde, fallì a causa delle resistenze delle potenze coloniali, in particolare Inghilterra e Olanda. Ai ribelli meridionali non restò che la via dell’emigrazione. Tra il 1861 e l’inizio del nuovo secolo circa 3 milioni si riversarono nelle Americhe. Un esodo di massa che, come osserva Novero, “purgò il Paese dal brigantaggio e dall’opposizione”.
Una nuova pagina nera dell’Unità d’Italia che riaffiora dal dimenticatoio della storia, dopo quella dell’assedio di Gaeta narrata dal napoletano Gigi di Fiore. Questa volta grazie al paziente lavoro di ricerca di un uomo del Nord, piemontese, negli archivi storici del Ministero degli Esteri e della Marina militare. Con l’obiettivo, esplicitato nell’introduzione, di analizzare senza reticenze il “legno storto con il quale l’Italia fu costruita; un legno che fu pur sempre la sola materia disponibile”.
(Il Messaggero, 1 aprile 2011)
Mario Avagliano © Copyright


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