di Stefano Mannucci
Le prime bombe su Roma iniziarono a cadere nella mattina del 19 luglio. I primi edifici ad essere colpiti furono gli edifici di Medicina Clinica all’interno del complesso universitario. Le esplosioni si susseguirono, devastando edifici universitari ed abitazioni civili. «Ondata dopo ondata, i duecentosettanta bombardieri alleati stavano polverizzando i quartieri meridionali di Roma da un’altitudine “di venti angeli” – ventimila piedi, secondo il linguaggio del Corpo d’armata aereo americano – e fuori della portata della contraerea italiana». (Katz Robert, Roma città aperta. Settembre 1943-giugno 1944). L’ospedale del Policnico si riempì «con l’arrivo di feriti e moribondi, centinaia di vittime in preda a emorragie causate dalle bombe, uomini, donne e bambini, che poco prima giocavano nelle strade del quartiere proletario di San Lorenzo». (Katz Robert, op. cit.)
L’obiettivo dell’attacco aereo era lo scalo di smistamento ferroviario nel quartiere di San Lorenzo. Il giorno stesso, gli alleati stilarono un rapporto di valutazione dei danni, in cui si asseriva che «la missione si era rivelata un intervento chirurgico perfettamente riuscito» e senza danni «rilevati nella città stessa se non per pochi edifici nelle immediate vicinanze dello scalo di San Lorenzo». Ma come ha ricordato Katz, «le “immediate vicinanze” erano tuttavia una delle zone residenziali più popolose della città, e nei “pochi edifici” morirono oltre mille romani, mentre migliaia furono i feriti». (Katz Robert, op. cit.)
«Me ne vado verso casa nostra e in mezzo alle macerie ci sta un silenzio che fa impressione. Un silenzio che ha sotterrato San Lorenzo con tutto il camposanto. Che ha impastato le case e le lapidi in una sola maceria silenziosa, che ha azzittato i vivi e i morti. La gente sta tutta in mezzo alla strada e nel mentre che me ne vado verso il palazzo mio passo su via dei Reti dove c’è il carcere minorile. Pare che le guardie so’ scappate senza manco aprì le celle dei ragazzini reclusi, mentre a via dei Sabelli so’ un’ottantina i morti dell’orfanotrofio. […]
Io, intanto, che è finito il bombardamento…giro…giro…ma non trovo più il palazzo nostro. Per mezz’ora me ne vado avanti e indietro dalle mura che tengo di riferimento e poi mi accorgo che ci sto camminando sopra». (Celestini Ascanio, Storie di uno scemo di guerra)
Gli operatori dell’Istituto Luce documentarono i danni dei bombardamenti lungo viale Regina Margherita, fotografando i tram divelti, gli edifici colpiti quali l’Istituto di Sanità e la facoltà di Chimica situata all’interno della Città Universitaria. I fotografi si aggirarono poi a riprendere le abitazioni distrutte nel quartiere San Lorenzo o lungo via Tiburtina.
Gli operatori del Reparto Guerra entrarono anche nel cimitero del Verano, a fotografare le tombe danneggiate, riprendendo in primo piano la lapide della famiglia Pacelli, con i vasi per fiori sparsi sul terreno. Anche il bombardamento della Basilica di San Lorenzo fu documentato, attraverso immagini scattate sia dall’esterno, a riprendere il portico e la facciata completamente distrutta, sia all’interno dello stesso edificio. Gli operatori fotografarono un frate che si aggirava sperduto fra le panche divelte e le colonne abbattute, prima di ritrarre la principessa di Piemonte Maria Josè tra le macerie, arrivata sul luogo a constatare i danni. Lo stesso giorno del bombardamento, il Minculpop dispose a tutti i giornali di Roma, di dedicare un’intera pagina «all’illustrazione storica, religiosa ed artistica della Basilica», ordinando loro di pubblicare le fotografie scattate dall’Istituto Luce, soprattutto quelle che documentavano «la facciata prima e dopo il bombardamento e con l’interno – riferentesi alla Basilica di S. Lorenzo e agli edifici colpiti dell’Università».
Ma l’icona di quella dolorosa giornata, rimase la fotografia con cui gli operatori dell’Istituto Luce ritraevano Pio XII a braccia aperte nel gesto di abbracciare e benedire la popolazione romana dopo i bombardamenti. Per anni, quella fotografia fu assunta a simbolo di quella giornata, e diffusa con didascalie che appunto indicavano come la scena fosse stata ritratta nel quartiere di San Lorenzo di Roma.
Ma in realtà, la fotografia in questione fu scattata davanti alla Basilica di San Giovanni in Laterano, ed era l’ultima fotografia di un’unica serie, realizzata probabilmente dopo il secondo bombardamento di Roma, avvenuto nella mattina del 13 agosto 1943, durante la visita che il pontefice effettuò a San Giovanni prima di recarsi nei quartieri colpiti. I fotografi testimoniarono l’arrivo in macchina del pontefice nella piazza; poi ripresero Pio XII mentre camminava in mezzo «alla folla davanti alla Basilica di San Giovanni in Laterano»; infine lo fotografarono mentre, con le mani giunte, si concentrava in una preghiera circondato «dalla popolazione romana vittima dei bombardamenti». I fotografi seguirono il pontefice avviarsi verso la propria automobile, e prima di accingersi a salire per partire via, Pio XII si voltò ancora una volta verso la popolazione, sollevando una mano in segno di benedizione, per poi aprire le braccia verso le persone che si stringevano a lui.
E fu in quel momento, che gli operatori dell’Istituto Luce scattarono la celebre fotografia che per anni sarebbe stata diffusa con l’errata didascalia.
Molti indizi confermano come la fotografia non fosse stata scattata nel quartiere di San Lorenzo. Innanzitutto, le persone ritratte nella fotografia avevano i vestiti puliti e non presentavano alcuna ferita; mentre diversi testimoni ricordarono come, dopo il bombardamento, gli abitanti del quartiere di San Lorenzo avessero gli abiti bianchi dalla polvere e dai calcinaci, ed i volti stravolti dal terrore e dalla fatica. Inoltre, gli stessi visi che osservavano Pio XII, mentre apriva le braccia, erano riconoscibili in molte altre fotografie scattate a San Giovanni, a testimoniare in maniera inequivocabile come anche quella fotografia appartenesse al medesimo servizio fotografico (Mannucci Stefano. Luce sulla guerra. La fotografia di guerra tra propaganda e realtà. Italia 1940-45).
Pur essendo difficile appurare la causa che ha generato l’errore nella diffusione della fotografia, il messaggio contenutovi ha rivestito una notevole importanza nella costruzione dell’immagine di Pio XII all’interno della memoria storica della nazione, non soltanto nella rappresentazione degli anni di guerra, ma influenzando anche l’opinione pubblica nella discussione politica che animò i primi anni del dopoguerra.
Le prime bombe su Roma iniziarono a cadere nella mattina del 19 luglio. I primi edifici ad essere colpiti furono gli edifici di Medicina Clinica all’interno del complesso universitario. Le esplosioni si susseguirono, devastando edifici universitari ed abitazioni civili. «Ondata dopo ondata, i duecentosettanta bombardieri alleati stavano polverizzando i quartieri meridionali di Roma da un’altitudine “di venti angeli” – ventimila piedi, secondo il linguaggio del Corpo d’armata aereo americano – e fuori della portata della contraerea italiana». (Katz Robert, Roma città aperta. Settembre 1943-giugno 1944). L’ospedale del Policnico si riempì «con l’arrivo di feriti e moribondi, centinaia di vittime in preda a emorragie causate dalle bombe, uomini, donne e bambini, che poco prima giocavano nelle strade del quartiere proletario di San Lorenzo». (Katz Robert, op. cit.)
L’obiettivo dell’attacco aereo era lo scalo di smistamento ferroviario nel quartiere di San Lorenzo. Il giorno stesso, gli alleati stilarono un rapporto di valutazione dei danni, in cui si asseriva che «la missione si era rivelata un intervento chirurgico perfettamente riuscito» e senza danni «rilevati nella città stessa se non per pochi edifici nelle immediate vicinanze dello scalo di San Lorenzo». Ma come ha ricordato Katz, «le “immediate vicinanze” erano tuttavia una delle zone residenziali più popolose della città, e nei “pochi edifici” morirono oltre mille romani, mentre migliaia furono i feriti». (Katz Robert, op. cit.)
«Me ne vado verso casa nostra e in mezzo alle macerie ci sta un silenzio che fa impressione. Un silenzio che ha sotterrato San Lorenzo con tutto il camposanto. Che ha impastato le case e le lapidi in una sola maceria silenziosa, che ha azzittato i vivi e i morti. La gente sta tutta in mezzo alla strada e nel mentre che me ne vado verso il palazzo mio passo su via dei Reti dove c’è il carcere minorile. Pare che le guardie so’ scappate senza manco aprì le celle dei ragazzini reclusi, mentre a via dei Sabelli so’ un’ottantina i morti dell’orfanotrofio. […]
Io, intanto, che è finito il bombardamento…giro…giro…ma non trovo più il palazzo nostro. Per mezz’ora me ne vado avanti e indietro dalle mura che tengo di riferimento e poi mi accorgo che ci sto camminando sopra». (Celestini Ascanio, Storie di uno scemo di guerra)
Gli operatori dell’Istituto Luce documentarono i danni dei bombardamenti lungo viale Regina Margherita, fotografando i tram divelti, gli edifici colpiti quali l’Istituto di Sanità e la facoltà di Chimica situata all’interno della Città Universitaria. I fotografi si aggirarono poi a riprendere le abitazioni distrutte nel quartiere San Lorenzo o lungo via Tiburtina.
Gli operatori del Reparto Guerra entrarono anche nel cimitero del Verano, a fotografare le tombe danneggiate, riprendendo in primo piano la lapide della famiglia Pacelli, con i vasi per fiori sparsi sul terreno. Anche il bombardamento della Basilica di San Lorenzo fu documentato, attraverso immagini scattate sia dall’esterno, a riprendere il portico e la facciata completamente distrutta, sia all’interno dello stesso edificio. Gli operatori fotografarono un frate che si aggirava sperduto fra le panche divelte e le colonne abbattute, prima di ritrarre la principessa di Piemonte Maria Josè tra le macerie, arrivata sul luogo a constatare i danni. Lo stesso giorno del bombardamento, il Minculpop dispose a tutti i giornali di Roma, di dedicare un’intera pagina «all’illustrazione storica, religiosa ed artistica della Basilica», ordinando loro di pubblicare le fotografie scattate dall’Istituto Luce, soprattutto quelle che documentavano «la facciata prima e dopo il bombardamento e con l’interno – riferentesi alla Basilica di S. Lorenzo e agli edifici colpiti dell’Università».
Ma l’icona di quella dolorosa giornata, rimase la fotografia con cui gli operatori dell’Istituto Luce ritraevano Pio XII a braccia aperte nel gesto di abbracciare e benedire la popolazione romana dopo i bombardamenti. Per anni, quella fotografia fu assunta a simbolo di quella giornata, e diffusa con didascalie che appunto indicavano come la scena fosse stata ritratta nel quartiere di San Lorenzo di Roma.
Ma in realtà, la fotografia in questione fu scattata davanti alla Basilica di San Giovanni in Laterano, ed era l’ultima fotografia di un’unica serie, realizzata probabilmente dopo il secondo bombardamento di Roma, avvenuto nella mattina del 13 agosto 1943, durante la visita che il pontefice effettuò a San Giovanni prima di recarsi nei quartieri colpiti. I fotografi testimoniarono l’arrivo in macchina del pontefice nella piazza; poi ripresero Pio XII mentre camminava in mezzo «alla folla davanti alla Basilica di San Giovanni in Laterano»; infine lo fotografarono mentre, con le mani giunte, si concentrava in una preghiera circondato «dalla popolazione romana vittima dei bombardamenti». I fotografi seguirono il pontefice avviarsi verso la propria automobile, e prima di accingersi a salire per partire via, Pio XII si voltò ancora una volta verso la popolazione, sollevando una mano in segno di benedizione, per poi aprire le braccia verso le persone che si stringevano a lui.
E fu in quel momento, che gli operatori dell’Istituto Luce scattarono la celebre fotografia che per anni sarebbe stata diffusa con l’errata didascalia.
Molti indizi confermano come la fotografia non fosse stata scattata nel quartiere di San Lorenzo. Innanzitutto, le persone ritratte nella fotografia avevano i vestiti puliti e non presentavano alcuna ferita; mentre diversi testimoni ricordarono come, dopo il bombardamento, gli abitanti del quartiere di San Lorenzo avessero gli abiti bianchi dalla polvere e dai calcinaci, ed i volti stravolti dal terrore e dalla fatica. Inoltre, gli stessi visi che osservavano Pio XII, mentre apriva le braccia, erano riconoscibili in molte altre fotografie scattate a San Giovanni, a testimoniare in maniera inequivocabile come anche quella fotografia appartenesse al medesimo servizio fotografico (Mannucci Stefano. Luce sulla guerra. La fotografia di guerra tra propaganda e realtà. Italia 1940-45).
Pur essendo difficile appurare la causa che ha generato l’errore nella diffusione della fotografia, il messaggio contenutovi ha rivestito una notevole importanza nella costruzione dell’immagine di Pio XII all’interno della memoria storica della nazione, non soltanto nella rappresentazione degli anni di guerra, ma influenzando anche l’opinione pubblica nella discussione politica che animò i primi anni del dopoguerra.
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