di Mario Avagliano
E’ morto ieri pomeriggio, nella sua abitazione romana,
Rosario Bentivegna, 89 anni, detto Sasà, nato a Roma il 22 giugno 1922
(l’anno della marcia fascista, “ma non ho fatto in tempo a
farla”, diceva lui ironicamente), ultimo “orgoglioso”
superstite del commando di partigiani comunisti protagonisti dell’azione
di via Rasella. Il 23 marzo 1944 fu proprio Bentivegna, travestito da spazzino,
ad accendere la miccia dell’esplosivo che fece saltare in aria 32 soldati
del Battaglione Bozen. I tedeschi “punirono” i romani con l'eccidio delle
Fosse Ardeatine.
Nelle ultime settimane Bentivegna si era gravemente ammalato. È
spirato tra le braccia della compagna Patrizia Toraldo di Francia. Domani
mattina alle 10,30 sarà aperta al pubblico la camera ardente allestita presso
la sala “Peppino Impastato” della Provincia di Roma. Tra i primi ad
esprimere il cordoglio, è stato Riccardo Pacifici, presidente della Comunità
ebraica di Roma, in viaggio ad Auschwitz, che ha dichiarato: “E’
morto un eroe ingiustamente accusato”. Un ricordo commosso di Bentivegna è
giunto anche dal presidente della Provincia di Roma Nicola Zingaretti
(“Fa parte di un gruppo di uomini e donne che ha permesso a noi di vivere
in un paese democratico”), dall’Anpi nazionale, della cui
presidenza era membro onorario, dall’Anpi romana, nella quale aveva lungamente
militato, e dagli amici ex partigiani, da Mario Fiorentini a Massimo Rendina.
Bentivegna aveva rilasciato l’ultima intervista a
“Il Messaggero”, di cui vi proponiamo alcuni brani
inediti. L’ex partigiano, medaglia d’argento della Resistenza, per
parte di padre aveva origini siciliane, “da una famiglia
garibaldina”, come lui stesso amava sottolineare. Rosario, dopo essere
stato da ragazzo un entusiasta balilla, sui banchi del liceo passò nelle file
antifasciste, con l’adesione ai gruppi di orientamento trozkista. “Già quando avevo 13-14
anni ero colpito dalla corruzione e dal clientelismo del regime e dalle
differenze sociali esistenti, per cui l’amante del portiere era
considerata una puttana e l’amica del capo della polizia una gran dama”.
Nell’aprile 1941, in pieno Ventennio fascista, Bentivegna
fu tra gli studenti che occuparono l’Università di Roma. Arrestato e
sottoposto a un pesante interrogatorio, venne rilasciato con diffida di
polizia. Dopo l’8 settembre 1943, la scelta di aderire al Pci e di
partecipare alla guerra di liberazione, col nome di battaglia di Paolo,
“dal nome di uno degli Apostoli di Gesù”. Era tanto temuto dai
nazifascisti, che gli misero sulla testa una taglia di un milione e 850 mila
lire, una cifra enorme a quei tempi.
Nel marzo del 1943, l’episodio che gli segnò la vita: la
partecipazione da protagonista all’azione di via Rasella, che ebbe nel
dopoguerra lunghi strascichi giudiziari e lo coinvolse in querelle
giornalistiche e politiche.
Dopo la liberazione di Roma e le nozze con Carla Capponi (più
tardi si separeranno), partì per la Jugoslavia, per combattere tra le
formazioni partigiane della Divisione Italia Garibaldi. Rientrò nella capitale
solo nel marzo 1945, “ferocemente antitino”, un mese dopo la
nascita della figlia Elena.
Gli anni del dopoguerra di Bentivegna furono scanditi da
un'intensa stagione di lotte politiche e sociali vissute attraverso la
militanza nel Pci e l’amata professione di medico-legale
dell’Inca-Cgil, in prima linea nelle battaglie per la prevenzione sui
luoghi di lavoro. Comunista sui generis, libertario e anticonformista,
nel ’56 si schierò contro il partito, condannando l’invasione
sovietica in Ungheria. Nel ‘68 l'impegno internazionale a fianco della
Resistenza greca durante il “regime dei colonnelli” e
l'organizzazione dei “viaggi clandestini” dalla Grecia all'Italia,
per permettere la fuga dei comunisti greci condannati a morte.
Il terrorismo degli anni ’70 e la violenza dei gruppi di
sinistra extraparlamentare furono ferocemente criticati da Bentivegna come
fenomeni di “avventurismo”. “Per questo motivo fui minacciato dagli
estremisti sia neri che rossi. Ai tempi delle Br, rifiutai la scorta e la Digos
mi consigliò di prendere il porto d’armi e di girare con una pistola per
difendermi. Ma io lo feci per pochi giorni: quell’affare in tasca mi
pesava. Ho sempre pagato di persona la mia coerenza. E ho sempre creduto alla
libertà e alla democrazia”.
Nel 1985 la decisione di uscire dal Pci, per i profondi dissensi
con la linea “consociativa” del partito di Berlinguer. Negli ultimi
anni aveva preso la tessera del Pd nella sezione di via dei Giubbonari: “Sono ancora
comunista perché credo nel superamento dello stato di cose presenti. Ma sono un
comunista libertario, contro tutti i tiranni, contro tutti gli integralismi,
anche quello dei comunisti. Nel ’56 ho condannato l’invasione in
Ungheria e adesso sono contro la sharia, i kamikaze, i talebani. E fin dal 1948
sono dalla parte d’Israele e ci sto ancora”.
(Il Messaggero, 3 aprile 2012)
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