di Annamaria Barbato Ricci
Il contrasto non poteva essere più stridente. Da un lato la cronaca quotidiana costellata da avventurieri, faccendieri, politicanti di cui emergono i saccheggi; dall’altra la nobile figura di un alto ufficiale dell’Esercito italiano, Giuseppe (Beppo) Cordero Lanza di Montezemolo, regista della resistenza militare a Roma e in Italia dopo l’8 settembre 1943 e, infine, dignitosamente andato incontro al proprio destino nella fatidica data del 24 marzo 1944, fra i 335 martiri delle Fosse Ardeatine.
Per noi contemporanei, senza studi storici specifici alle spalle, questo nome non fa risuonare riferimenti illuminanti; nell’attualità, il cognome è piuttosto collegato ad un lontano cugino che imperversa sul palcoscenico economico; o, al massimo, per frequentazioni sporadiche dell’Accademia Angelica Costantiniana a Roma, può essere capitato d’incontrare il Cardinale Andrea Cordero Lanza di Montezemolo, che, si apprenderà poi, è il figlio del personaggio di cui parliamo.
Chi legge, però, “Il partigiano Montezemolo – Storia del capo della resistenza militare nell’Italia occupata” di Mario Avagliano, con prefazione di Mimmo Franzinelli, noto autore di saggi di storia contemporanea (Dalai Editore), ha un momento di sgomento.
Possibile, viene da chiedersi, che questa amnesiaca società italiana si lasci scivolare addosso il dovere e l’onore di celebrare e valorizzare la memoria di un eroe così “immenso” che tanto contribuì alla causa nazionale?
Certo, nei suoi confronti è stato apparentemente compiuto l’intero iter del riconoscimento sociale del suo eroismo; gli è stato tributato l’intero armamentario di medaglia, strade intitolate a Roma e Torino (giacché trattasi di un personaggio di nascita piemontese), caserme che solennemente ostentano il suo nome. Ma, leggendone la biografia che traccia Avagliano, si tratta di una minima concessione di una patria quasi matrigna, che avrebbe dovuto fare ben altro per celebrare un grande spirito come il suo.
Certo, siamo in un’epoca che riesce a far emergere soprattutto i mediocri, perché i talentuosi sono visti come dei pericolosi, ingovernabili ribelli (capirai, hanno la sovversiva abitudine di utilizzare la materia grigia che custodiscono nella scatola cranica…); dunque, corre il rischio di rimanere incomprensibile come un uomo con cinque figli, una moglie deliziosa e molto amata, una condizione sociale di altissimo rango scelga di ascoltare le voci dell’onore e del dovere. Misteri di tempi ormai lontani, dove il consumismo non aveva ancora appestato la società.
Mario Avagliano, con una rigorosa ricerca storica, che gli ha occupato lunghi anni – nel corso dei quali ha, peraltro, realizzato altre pregevoli ricerche sulla storia partigiana, sugli internati militari e sui prigionieri dei lager tedeschi – ha ricostruito con grande dovizia di particolari la parabola umana del Colonnello M. (com’era chiamato quale punto di riferimento resistenziale), ricavandone un ritratto a tutto tondo che riesce a coniugare il rigore storico con il coinvolgimento emotivo.
Il libro dovrebbe diventare obbligatorio in tutte le scuole di formazione militare, dalla Nunziatella ed il Morosini alle Accademie militari che formano la creme de la creme dei Corpi della Difesa. Perché ne esce il ritratto di un uomo “vero”, dai sentimenti di fedeltà alla Patria ed alla famiglia che commuovono ed esaltano. E quasi fanno dire: ma allora non è solo frutto della fantasia da romanzo il comportamento coerente e fiero di chi fa il proprio dovere fino alle estreme conseguenze!
Nato nel 1901 da una famiglia monregalese (da Mondovì, in provincia di Cuneo) di quella nobiltà piemontese austera e fedele alla Corona Savoja, il Colonnello Montezemolo, fine studioso d’ingegneria militare, conquistò sin da giovanissimo l’apprezzamento dei suoi superiori, persino ai più alti vertici, per la sua vivace intelligenza ed il suo carisma.
Ha, perciò, vissuto intensamente il servizio alla Patria, in quanto il suo apporto era considerato fondamentale dalle supreme sfere militari, tutte le esperienze in cui fu coinvolta l’Italia in quegli anni bui: la guerra d’Africa, la guerra di Spagna fino alle emergenze belliche della Seconda Guerra mondiale.
Dopo l’8 settembre, nel caos che generò l’armistizio con gli Anglo-americani, nella cornice dell’atmosfera del “si salvi chi può” che ebbe come prototipo il Re Vittorio Emanuele III e il Capo del Governo post fascista, il Maresciallo Pietro Badoglio, rimase coraggiosamente al suo posto, assumendosi anche responsabilità non proprie per grado e adoperandosi sia nell’organizzare una valida azione di contrasto alle truppe tedesche occupanti, innanzitutto su Roma, sia a riflettere sulla migliore attuazione di una transizione senza grossi sconvolgimenti dalla “finta” Città Aperta, in realtà occupata e violata dai tedeschi, allo status di territorio liberato.
Nel libro, troviamo una miriade di comprimari storici di grande interesse, spesso coraggiosi (ma lontani dalle vette toccate da Montezemolo), sia un bel manipolo di vigliacchi, speculatori, traditori.
Due i nomi di italiani che emergono nel male, piuttosto che nel bene: quello di colui che “vendette” il marchese Montezemolo a Kappler ed agli SS assetati del suo sangue; l’altro, un parassita che campicchiava fingendo di vendere informazioni ai familiari dei prigionieri dei tedeschi, un tenente colonnello dell’Aviazione repubblichina: di lui si perdono le tracce, dopo l’incetta di denaro che fece ovunque, fingendo di passare notizie sui loro cari ostaggio dei tedeschi.
Due donne, a loro volta, assurgono ad un ruolo straordinario: la moglie di Cordero Lanza di Montezemolo, Amalia (Juccia) de Matteis, tenera, impavida, adorata moglie dell’eroe, che ella riama con fedeltà e dignità; Fulvia Schnanzer Ripa di Meana, cugina per matrimonio di Beppo, instancabile nel sostenerlo nella sua missione partigiana e, successivamente, nel cercare soluzioni che lo sottraggano al carcere di via Tasso, dove, prima del martirio, rimase imprigionato per due mesi; il Colonnello, infatti fu recluso in quella Villa Triste che fu uno dei luoghi dell’Olocausto in Italia, subendo torture e indicibili maltrattamenti; da qui partiranno la maggior parte dei martiri delle Fosse Ardeatine, ivi compreso Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo, alla cui azione di resistenza militare si era dovuta la fornitura dell’esplosivo che armò il carretto da netturbino del neo-scomparso Rosario Bencivenga, strumento di morte dell’attentato di via Rasella. Colpisce molto questo nodo della vicenda che, in qualche modo, rende il protagonista del libro, per una beffarda ansa del destino, l’”Heautontimorumenos”, in greco “il punitore di se stesso” che si ritrova nell’omonima commedia di Terenzio.
Il Colonnello Montezemolo emerge dalle pagine del libro, che finalmente consentono di conoscerne la sua grandezza umana e “civile”, quantunque fosse un militare, nella sua aristocratica, affascinante personalità anche dal ricordo dei figli, dai larghi apprezzamenti dei superiori militari, dai documenti che con pazienza certosina Avagliano ha collazionato.
Un libro che ci indica la via maestra dell’etica e del rigore morale: leggendo le sue pagine vorremmo poter essere dotati di onnipotenza per strappare Montezemolo al tragico destino che gli era stato riservato: perché già ne nascono pochi di uomini di quella tempra e di quella stoffa, e noi, cicale dell’umanità, ci concediamo persino il lusso di dissiparli…
(L'Indro, 25 aprile 2012)
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