Il Novecento, oltre che il secolo delle guerre, fu anche il secolo delle violenze contro i civili, in particolare le donne, e dello stupro come arma per annientare, annichilire, fiaccare lo spirito del nemico sconfitto. Una strategia bellica che trovò il suo culmine nella seconda guerra mondiale, che fece registrare episodi efferati di violenza sessuale da parte di tutti gli eserciti, non solo quello tedesco. Ma gli anni del conflitto in Italia furono per l’altra metà del cielo anche un’occasione di riscatto, di autodeterminazione, di protagonismo nella vita sociale. Di emancipazione dal tradizionale ruolo di “angeli del focolare” ritagliato per esse dal regime fascista.
Con
la maggior parte degli uomini al fronte, prigionieri di guerra, dispersi o
deportati, le donne furono chiamate a svolgere lavori prettamente maschili,
come condurre i tram nelle città. E dopo
l’armistizio dell’8 settembre 1943 e l’occupazione nazista del centro nord
della penisola, molte di esse parteciparono alla guerra di liberazione. Non
solo come staffette o attiviste politiche, ma anche imbracciando le armi, come
le gappiste comuniste Carla Capponi e Lucia Ottobrini.
La
storia in rosa dell’Italia tra il 1940 e il 1945 è stata ricostruita nel bel
saggio di Michela Ponzani, Guerra alle
donne. Partigiane, vittime di stupro, “amanti del nemico” (Einaudi, pp.
314, euro 25). Un libro che fin dal titolo spiega il carattere “militare-maschile”
della guerra, che vide come prime vittime proprio le donne. Vittime dei
bombardamenti alleati. Vittime della fame e dei rastrellamenti. Vittime delle
stragi e degli stupri di massa.
Per
la sua ricostruzione storica, la Ponzani ha attinto al fondo della trasmissione
Rai “La mia guerra”, andata in onda nei primi anni Novanta, depositato presso
l’Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia,
oltre che all’Archivio della memoria delle donne di Bologna, all’Archivio
segreto del Vaticano e a vari altri archivi pubblici e privati. Si tratta di
scritti e di memorie private di donne che rivelano tratti solo parzialmente
conosciuti delle vicende di quegli anni ed invitano a fare i conti con il
sommerso, il taciuto, le forme di rimozione dei crimini di guerra dal racconto
pubblico nazionale.
In questo oblio rientrano gli stupri di massa perpetrati
dalle truppe tedesche e dai soldati mongoli della CLXII divisione Turkestan,
aggregata ai reparti militari della Wermacht, soprattutto in alcune zone
dell’Emilia Romagna come la Val Tidone, la Val Trebbia e la Val Nure. Atti di
violenza espressamente autorizzati dai vertici militari tedeschi, perché il
vero obiettivo non era tanto “colpire i partigiani ma far comprendere alla
popolazione quali conseguenze [avrà] anche per i civili il comportamento dei
ribelli” avrebbe comportato.
Lo
stupro è un’esperienza che sconvolse le famiglie. Le memorie delle donne sono
piene di immagini ricorrenti, come quelle di padri, mariti, fratelli resi
impotenti di fronte al sopruso inflitto alle proprie donne, incapaci di
riprendersi da una ferita non rimarginabile. Esemplare nella sua drammaticità è
il racconto di una donna sfollata tra le colline attorno a Marzabotto, proprio
a ridosso della strage del settembre-ottobre 1944. Rimasta sola con i figli e
con il marito deportato in Germania, la donna viene stuprata ripetutamente da
un gruppo di tedeschi. Quei soldati che hanno abusato di lei la sera prima,
tornano presso la sua casa la mattina successiva e, non trovandola, minacciano
di fucilare tutti i componenti della famiglia, compresi i figli piccoli, se
ella non farà ritorno. Sono proprio i due uomini verso i quali nutre più
fiducia, il cognato e il parroco del paese, a convincerla a sottomettersi alla
violenza per salvare la vita degli altri.
Un
altro capitolo è dedicato alle forme di violenza sessuale messe in atto dai
fascisti nelle caserme e nelle camere di tortura della RSI, come strumento di
punizione del nemico politico, al pari delle bastonature e delle case distrutte
e incendiate.
Le violenze sessuali furono
perpetrate anche dagli alleati. Quando nel maggio del ’44 finalmente gli
angloamericani liberarono il Frusinate, per la popolazione civile fu l’inizio di
nuovi saccheggi, uccisioni, torture e stupri di gruppo, soprattutto ad opera
dei Goumiers, i militari marocchini e algerini del corpo di spedizione francese.
I
racconti delle donne partigiane proposti da Michela Ponzani ci fanno
comprendere, infine, che nella loro scelta di libertà vi fu anche una guerra privata,
esistenziale per la propria emancipazione dall’educazione fascista e dalla
cultura patriarcale e cattolico-tradizionale. Di qui, nel dopoguerra, il
rimpianto per la mancata piena realizzazione dei progetti di parità dei diritti
con l’altro sesso. Nonostante il diritto al voto e l’articolo 3 della
Costituzione, anche per le donne la resistenza fu una sorta di “rivoluzione
rimasta a mezzo”. E quando la vita riprese il suo corso normale, le partigiane,
le antifasciste e le ex deportate politiche furono rispedite in cucina dai loro
padri, fidanzati e mariti. Il percorso dell’uguaglianza era ancora molto lungo
da compiere.
(Il
Mattino, 12 giugno 2012)
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