di Aldo Cazzullo
I migliori tra i libri recenti sulla Resistenza, sui militari internati durante la seconda guerra mondiale, sugli ebrei, sul colonnello Montezemolo – il monarchico piemontese divenuto a Roma capo dell’opposizione in armi all’invasore nazista –, li ha scritti uno studioso di Cava dei Tirreni, Mario Avagliano. Il suo primogenito, Alessandro, è cresciuto a Roma. Una volta gli chiesi se si sentisse romano. Lui, che non ha ancora sedici anni, rispose fiero: «Io sono del Sud».
Guardai suo padre, che distolse lo sguardo, per nascondere la commozione. Ricordo quando in un circolo di Cava, dopo che un neoborbonico aveva fatto la sua tirata contro il Nord invasore e persecutore, Mario Avagliano rispose di non sentirsi meno orgoglioso di lui di essere meridionale, ma l’orgoglio non significa prendersela con Garibaldi; significa non rassegnarsi ad abitare case abusive, a lavorare in nero, a dare il voto in cambio di un’elemosina.
Antimeridionali sono i neoborbonici. Termine ormai riduttivo, per definire un movimento assai più vasto, molto attivo sul web, che ha già dato vita a partiti sicilianisti e presto germinerà una Lega del Sud, per la gioia di Borghezio e degli altri leghisti che disprezzano i meridionali e non vedono l’ora di separarsi da loro. Questo movimento si basa su una leggenda di cui gli storici meridionali seri come Rosario Villari ridono – il Regno delle Due Sicilie presentato come il più ricco e avanzato d’Europa –, costruita assemblando fandonie e pezzi di verità, per formulare una tesi consolatoria e per questo affascinante, ma nefasta e controproducente: il Sud è Sud a causa del Nord; la responsabilità dei mali della nostra terra non è nostra, ma di altri italiani. Per cui, non avendo colpe, non ci possiamo fare nulla.
Intendiamoci: è vero che per troppo tempo si è parlato troppo poco della guerra civile che ha insanguinato il Sud dopo il Risorgimento, con atrocità da entrambe le parti. È vero che Napoli prima dell’unificazione era di gran lunga la più grande città italiana, e dopo non lo è più stata. È vero che la politica dell’Italia liberale nei confronti del Sud – spesso condotta da meridionali come Crispi, Di Rudinì, lo stesso Pica – può e dev’essere criticata. Ma ai leghisti del Sud non importa nulla del revisionismo. Altrimenti racconterebbero, accanto all’esecuzione comandata da Nino Bixio, anche il primo e più sanguinoso eccidio di Bronte, la caccia all’uomo in cui venne bruciato mezzo paese e furono linciati sedici tra ufficiali, possidenti, civili. Altrimenti non presenterebbero come una guerra del Nord contro il Sud quella che in realtà vide come prime vittime i patrioti meridionali della Guardia nazionale, che venivano massacrati da quella strana alleanza tra briganti in senso tecnico, partigiani dei Borboni e nostalgici del potere temporale del clero: non esattamente un’alleanza per il progresso.
Ma è inutile dilungarsi nella confutazione. Non è la storia che interessa ai leghisti del Sud. Interessa soffiare sul fuoco del rancore verso il Nord che già esisteva e che vent’anni di invettive bossiane hanno rinfocolato, costruire il mito della grandezza perduta, inasprire le divisioni tra italiani. In perfetta sintonia, anzi complicità, con i nordisti, per cui il Nord non è la Germania a causa del Sud. La colpa è sempre degli altri.
In realtà il Sud è stato, ed è, grande. Ma non certo per i Borbone, dinastia di origine straniera, accanita avversaria del liberalismo e delle Costituzioni e sostenitrice dell’Antico Regime: monarchia assoluta, forca, tortura, Inquisizione, censura, ghetti; e molto oro, certo, che però non era dello Stato e tantomeno del popolo, ma del re. Il Sud è stato, ed è, grande per Vico e Croce, per Falcone e Borsellino (e Chinnici, Cassarà, Mattarella, La Torre, Livatino, Siani, Beppe Alfano, Peppino Impastato…), per la letteratura siciliana che è la più importante del Novecento italiano, per il contributo che i meridionali hanno dato con il loro lavoro alla ricostruzione del paese e al boom economico. Il Sud è la nostra identità, è un’Italia elevata all’ennesima potenza, rappresenta i nostri vizi peggiori e le nostre doti migliori, il familismo e la solidarietà, la spregiudicatezza e la lealtà, la violenza e il coraggio.
(da "L'Italia s'è ridesta" di Aldo Cazzullo, Mondadori, pp. 185-187)
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