di Mario Avagliano
C’era una volta il campo di Ferramonti di Tarsia. Il più grande campo d’internamento italiano realizzato dal regime fascista, destinato in particolare agli ebrei stranieri (vi furono rinchiusi anche gli ebrei del famoso battello fluviale Pentcho), che fu inaugurato il 20 giugno 1940 e fu liberato dagli inglesi nel settembre 1943. Ora la storia e la memoria di quel campo rischiano di essere stravolte. La Fondazione Museo Internazionale della Memoria Ferramonti di Tarsia, diretta dall’avvocato Franco Panebianco, ex sindaco di Tarsia, a cui è stata affidata la gestione della struttura (estromettendo l’omonima Fondazione Ferramonti guidata dallo storico Spartaco Capogreco, tra i primi in Italia ad occuparsi dei campi di internamento fascisti), sta in pratica procedendo a una de-ebraizzazione di quella vicenda storica.
Basta visitare il sito internet del “MuViF – Museo Virtuale Ferramonti” (http://www.museoferramonti.it) ed esaminare la sezione dei documenti: a parte qualche documento relativo agli ebrei, il resto sono tutte immagini o documenti di antifascisti italiani. Stessa cosa si può rilevare per quanto riguarda la sezione dei protagonisti del campo, che dedica un enorme spazio agli “antifascisti”, con le loro foto e le biografie, mentre per gli “ebrei stranieri” è presente solo un elenco di nomi.
L’impressione è che si tenti di far passare Ferramonti più come un campo antifascista che di reclusione di ebrei. In realtà, lo sparuto gruppo di antifascisti italiani che venne portato a Ferramonti da Manfredonia giunse lì solo tra il 5 e il 16 giugno 1943 (come risulta anche dai documenti citati in Ferramonti, un lager di Mussolini di Francesco Folino), poco prima che il campo chiudesse per sempre, e non nel 1941, come indicato nel sito della Fondazione.
Gli antifascisti rimasero internati a Ferramonti solo per pochi mesi, poiché nel frattempo il 25 luglio Mussolini veniva arrestato su ordine del re.
Insomma, la storia di Ferramonti è legata molto più agli ebrei che agli antifascisti, sia per la durata della loro permanenza in quel campo sia dal punto di vista numerico (gli ebrei furono circa 1.500, su un totale di 2mila internati, tra cui figuravano poi anche jugoslavi, greci e cinesi).
Nella comunità degli storici (vedi Mario Rende e Anna Pizzuti) e nel mondo della cultura e del giornalismo calabrese sono state sollevate forti perplessità sulle modalità di gestione del Museo. Chi visita le sale espositive (lo si può fare anche virtualmente, sul sito internet), può verificare di persona che l’allestimento del Museo, a parte qualche teca con oggetti degli internati, prevede solo numerose foto appese alla rinfusa sui muri, con didascalie scarne e senza un ordine filologico o cronologico. È sorta una polemica pure per l’indebito utilizzo del database sugli internati realizzato dalla studiosa Anna Pizzuti, autrice del libro Vite di carta. Storie di ebrei stranieri internati dal fascismo.
Quanto alle baracche dove vivevano gli internati, sono state restaurate (o ricostruite ex novo) in modo maldestro, con un colore giallino che, come ha denunciato la giornalista Anna Longo della Rai calabrese, le fa assomigliare più ad «anonimi e algidi bungalow in stile agriturismo» che a un campo di internamento. Il confronto con le foto originali dell’epoca è illuminante. Tanto che l’associazione ambientalista Italia Nostra ha definito il Museo «tutt’altro che un luogo di memoria ma piuttosto un’area in cui dilagano smemoratezza e spregiudicatezza».
Il Museo ha migliaia di visitatori all’anno, tra cui molte scolaresche. È questa la “storia” di quel periodo che vogliamo consegnare ai nostri figli?
(L'Unione Informa, 16 ottobre 2012)
(L'Unione Informa, 16 ottobre 2012)
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