di Mario Avagliano
Il 17 novembre del 2013 ricorre il 75° anniversario dell’emanazione del regio decreto legge sulle leggi razziali (meglio sarebbe dire leggi razziste). Un appuntamento importante per riflettere e approfondire, anche dal punto di vista storiografico, la prima fase della persecuzione degli ebrei in Italia, quella che Michele Sarfatti ha definito la persecuzione dei diritti, un po’ messa in ombra dalla tragicità della fase successiva della Shoah.
Io credo che il 27 gennaio costituisca una data-simbolo insostituibile del calendario internazionale della Memoria. Non vi è dubbio però che quella giornata riguardi in particolare le immani responsabilità della Germania nella vicenda delle deportazioni, non solo di tipo razzista, ma anche politico e militare. E per evidenti motivi, a partire dall’altissimo numero delle vittime, nelle scuole, sui giornali, nei convegni si parla quasi esclusivamente dell’esperienza dei lager.
Il dramma universale di Auschwitz, in qualche modo, oscura il 1938. E a noi italiani, bisogna ammetterlo, in fondo questa lettura storica non dispiace, perché ci consente di autoassolverci e, come diceva Vittorio Foa, di scaricare sui tedeschi il peso storico che portiamo sulle nostre coscienze e di soffermarci sui Giusti e sugli episodi, che pure ci sono stati, di salvataggio degli ebrei.
D’altra parte l’incredibile fretta con cui, dopo la liberazione, in un clima imbevuto di logiche di amnistia collettiva, ci si precipitò ad archiviare quanto accaduto tra il 1938 e il 1943, ha impedito una vera presa di coscienza del passato e ha coperto, omettendoli, i nomi e i cognomi dei responsabili. Che non furono solo Benito Mussolini e i gerarchi fascisti.
Un bel libro appena uscito, Baroni di razza di Barbara Raggi (Editori Riuniti, 216 pagine), spiega, come recita il sottotitolo, «come l’Università del dopoguerra ha riabilitato gli esecutori delle leggi razziali». Per sei anni intellettuali, docenti universitari, magistrati, avvocati e funzionari di basso e di alto livello prestarono la propria opera al servizio della propaganda antisemita e della persecuzione. Rimasero tutti (o quasi) al loro posto. L’epurazione annunciata dal nuovo Stato democratico non ci fu e l’apparato burocratico, culturale, amministrativo del fascismo “subentrò” a se stesso, in una sostanziale continuità.
I baroni del potere culturale, scientifico, professionale e universitario, che avevano fatto il bello e il cattivo tempo durante il Ventennio mussoliniano, scansarono senza colpo ferire le dure sentenze della Storia. E a questo gioco, rivela lo studio di Barbara Raggi, si prestarono anche figure luminose dell’antifascismo, come Guido Calogero, che ad esempio scrisse una lettera già nel 1944 per difendere Antonio Pagliaro, insigne linguista e glottologo, che aveva fatto parte del Consiglio superiore della demografia e della razza e aveva “lavorato” per dare un’inclinazione storica e culturale al razzismo fascista. Grazie a Calogero anche Pagliaro venne degnamente riabilitato nel 1946 e concluse serenamente la sua carriera col rango di professore emerito.
I francesi, com’è noto, hanno istituito una giornata nazionale del ricordo il 16 luglio, data in cui nel 1942 fu attuato il cosiddetto Rastrellamento del Velodromo d'inverno e le milizie francesi arrestarono 13.152 ebrei, gran parte dei quali furono deportati e morirono ad Auschwitz. A titolo personale, avanzo una proposta. Perché non fare lo stesso anche in Italia, magari in coincidenza dell’anniversario del 2013, istituendo un giorno della memoria delle responsabilità nazionali proprio il 17 novembre, data di emanazione delle leggi razziali del 1938?
(L'Unione Informa, 13 novembre 2012)
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