giovedì 11 aprile 2013

Libri e giornali, l'ossessione del Duce

di Mario Avagliano

L’abitudine delle note a margine a matita blu, da pedante maestrino di provincia, e la forma mentis da giornalista, Benito Mussolini non le perse mai, neppure quando l’Italia divenne un “Impero”. Anzi, durante tutto il Ventennio il duce coltivò una vera e propria ossessione per l’editoria. E forse anche per appagare le sue ambizioni d’intellettuale autodidatta, riservò una parte della sua attività quotidiana al monitoraggio della stampa e dei libri in uscita. Nessun capo del governo europeo e nessun dittatore, compresi Hitler, Stalin e Franco, dedicarono una simile attenzione (come rilevò anche il capo della polizia Carmine Senise) alla produzione editoriale del proprio paese.
Insomma il duce si comportò da severo controllore dell’editoria italiana, sempre attento a cosa si diceva e soprattutto a cosa si scriveva, come ci racconta Guido Bonsaver nel suo nuovo libro Mussolini censore. Storie di letteratura, dissenso e ipocrisia (Laterza, pp. 231, euro 18). E così, quando riceveva segnalazioni su libri da parte dalle strutture ministeriali, le esaminava con cura e vergava il suo responso, seguito dall’iniziale «M». Oppure ordinava alle prefetture l’immediato sequestro di un volume o che il funzionario di turno comunicasse a editori e scrittori la sua volontà.
L’apparato censorio diretto dal duce ebbe come prima vittima l’opposizione intransigente di Piero Gobetti e dell’editoria di parte socialista. Gobetti, che aveva fondato l’omonima casa editrice e dirigeva il periodico “La Rivoluzione Liberale”, era considerato da Mussolini uno dei suoi più pericolosi nemici. Il duce si occupò ripetutamente di lui, chiedendo al prefetto di Torino di rendergli la vita “difficile”, fino all’atto finale: la “diffida a cessare da qualsiasi attività editoriale”, che costrinse il suo giovane oppositore ad emigrare a Parigi.
A partire dal 1925-1926, quando il potere di Mussolini si fu consolidato, egli strinse rapporti controversi con gli editori più importanti, da Arnoldo Mondadori (che finanziava il suo movimento fin dal 1919) a Bompiani, e con personalità della cultura italiana, come Brancati, Moravia, Pirandello, Vittorini e altri. Ma continuò ad esercitare con pignoleria un’opera di censura, per motivi di opportunità politica, di decoro morale e, a partire dalla seconda metà degli anni Trenta, anche di razzismo.
Nel 1934 fu la pubblicazione di Sambadù, amore negro della scrittrice Maria Volpi (in arte Mura) a provocare la sua sdegnata reazione e la direttiva a tutte le prefetture di sorvegliare le pubblicazioni che avvenivano nei territori di competenza sotto il profilo della decenza morale.
Ma la storia di Mussolini censore non è la storia di contrapposizione tra un regime burbero e liberticida e gli intellettuali oppositori. Già nel 1975, lo storico italo-americano Philip Cannistraro, nel saggio La fabbrica del consenso. Fascismo e mass-media, si  soffermò sulle enormi dimensioni della «zona grigia» della cultura italiana, cioè di quell’ambigua, larga fascia di intellettuali che navigavano a metà tra collaborazionismo e opposizione. Un caso interessante è quello di Elio Vittorini, l’autore del più famoso romanzo censurato nell’Italia fascista, Conversazione in Sicilia, di cui Bonsaver ricostruisce il sofferto passaggio dalla militanza fascista, con la protezione di Alessandro Pavolini, sino alla disillusione e all’aperto antifascismo.
Questo saggio ci aiuta a capire, una volta di più, che durante il fascismo, anche nel settore dell’editoria il regime godette dell’apporto di schiere di intellettuali, chi in convinta militanza, chi per quelle inevitabili incrostazioni di parassitismo che ogni centro di potere chiama a sé, chi semplicemente accettando di fare il proprio lavoro nel contesto di un’Italia fascista. In un simile quadro, i concreti atti di protesta da parte di personaggi come Piero Gobetti, Roberto Bracco, Benedetto Croce e gli editori Laterza risaltano ancor di più, proprio perché appaiono come “picchi isolati in una distesa di piatto conformismo e di compromessi opportunistici”.
La censura riguardò tutti i campi del vivere civile e toccò il suo culmine con le leggi razziali del 1938 e la successiva “bonifica” dalle librerie, dalle biblioteche e dai programmi scolastici dei testi di autori ebrei e il divieto per questi di pubblicare libri. Negli anni di guerra, poi, oggetto del controllo del duce e dei suoi funzionari fu anche quello che oggi si chiamerebbe politically correct. Così quando nel gennaio 1941 Luigi Pirandello chiese l’autorizzazione a una trasmissione radiofonica della sua commedia Come tu mi vuoi, oltre al passaggio dal “lei” al “voi”, gli fu ordinato di eliminare ogni riferimento alla brutalità dei soldati austriaci e tedeschi durante la prima guerra mondiale. Per riguardo all’alleato Adolf Hitler, che con le sue truppe uncinate stava mettendo a ferro e a fuoco mezza Europa.
Dopo la caduta del fascismo del 25 luglio 1943 e la violenta stagione di Salò, “l’Italia del libro – come osserva Bonsaver – sopravvisse al proprio dittatore-censore e dimenticò presto i propri trascorsi durante il Ventennio”. Editori e intellettuali si rifecero la verginità e molti di loro passarono nelle file dell’antifascismo più acceso, cancellando le tracce del loro oscuro passato.

(Il Mattino, 7 aprile 2013)

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