di Dino Messina
“L’ultima volta che vidi mio padre era il Capodanno del 1944. I
baroni Scammacca del Murgo, coraggiosi amici, correndo gravi rischi, ci
avevano ospitati al nostro rientro a Roma e avevano organizzato
quell’attesaa riunione familiare”.
Adriana Cordero Lanza di Montezemolo, ultimogenita del colonnello
Giuseppe Montezemolo, il capo del Fronte militare clandestino, ricorda
con tratti veloci e precisi la figura del padre, medaglia d’oro, eroe
della Resistenza, massacrato alle Fosse Ardeatine nel pomeriggio del 24
marzo 1944, assieme agli altri 334 prigionieri politici, ebrei, detenuti
comuni che erano stati prelevati dalla prigione nazista di via Tasso e
da Regina.
Nella casa che da molti anni condivide con Benedetto Della Chiesa,
nipote di Papa Benedetto XV, in una tenuta agricola che corre proprio
lungo la via Ardeatina, Adriana di Montezemolo custodisce memorie
importanti, avendo ereditato dalla madre Juccia (Amalia), scomparsa nel
1983, la missione di ricordare quel padre importante, figura centrale
della Resistenza, che tuttavia per oltre mezzo secolo è stato tenuto
fuori dalla storiografia ufficiale. “Abbiamo avuto infinite
manifestazioni di affetto private e ufficiali, culminate in una medaglia
d’oro, ma è vero per molto tempo del ruolo di mio padre s’è parlato
molto poco. Forse perché noi siamo una famiglia di militari, abituati ai
fatti. Certo, mi fece grande piacere leggere nel 2003, sul ‘Corriere
della sera’, un articolo di Paolo Mieli in cui diceva che era il momento
di far entrare il colonnello Montezemolo nei libri di storia. Meno di
dieci anni dopo è arrivata la biografia di Mario Avagliano, ‘Il
partigiano Montezemolo’ (Dalai editore) che colmava una lacuna”.
Adriana Montezemolo parla veloce, talvolta si interrompe e si alza per
mostrare un cimelio importante, i biglietti del padre dalla prigione di
via Tasso, la lettera di ringraziamento del generale Harold Alexander,
comandante degli eserciti alleati in Italia, alla mamma Juccia per
l’opera insostituibile svolta dal capo delle Forze militari clandestine a
Roma, la foto che ritraeva la famiglia per l’ultima estate spensierata a
Forte dei Marmi: ci sono il primogenito Manfredi, classe 1924, che
aiutò il padre nella lotta clandestina, il secondogenito Andrea, oggi
cardinale, che lavorò con il medico Attilio Ascarelli dopo la
liberazione di Roma a ricomporre i resti delle vittime delle Fosse
Ardeatine, infine, assieme ad Adriana, le sorelle Lidia e Isolda.
Adriana nel dopoguerra si è laureata in fisica con Edoardo Amaldi, ma
assieme al marito Benedetto, da cui ha avuto cinque figli, si è sempre
occupata di agricoltura, organizzando una tenuta agricola in Kenia e poi
dal 1960 seguendo le attività nelle campagne romane e del Viterbese.
Le memorie della famiglia si intrecciano a quelle pubbliche. “Ci
eravamo trasferiti a Roma da Torino nel 1940, quando mio padre era stato
nominato colonnello, il più giovane con quel grado. Diceva che
nell’esercito contano gli ufficiali con la c (caporale, come lui era
stato nella prima guerra mondiale, capitano e colonnello) perché i più
vicini alla truppa. Il papà era una persona affettuosa, ma come usava
una volta riservata e severa. Aveva un’autorità eccezionale, tutti
glielo riconoscevano, era un capo nato. Dopo la laurea in ingegneria e
una breve parentesi di lavoro come civile a Genova, era rientrato
nell’esercito dove aveva bruciato le tappe: volontario nella Guerra di
Spagna, aveva poi compiuto almeno 16 missioni in Africa settentrionale
dove era stato decorato con una medaglia d’argento”.
Fedele ai Savoia, il 19 luglio 1943 aveva accompagnato Mussolini
all’incontro di Feltre con Hitler, dove il capo del fascismo non ebbe il
coraggio di sostenere con il Fuehrer le ragioni di una pace separata.
Fu allora che venne decisa la sorte del Duce e il colonnello Montezemolo
ebbe una parte nel suo arresto. Consigliere militare di Badoglio,
decise di restare a Roma dopo l’8 settembre per organizzare la difesa
militare, quando la corte e tutte le alte cariche dell’esercito e del
governo prendevano la via di Pescara. “La funzione di mio padre era di
collegamento tra il governo legittimo del Sud e la Resistenza romana. Si
era fatto paracadutare alcune radio ricetrasmittenti e comunicava agli
Alleati gli spostamenti delle truppe tedesche e tutte le informazioni
utili che riusciva ad ottenere”.
Per questo Herbert Kappler, il comandate delle SS di Roma, che poi lo
avrebbe interrogato e torturato in via Tasso, lo considerava il nemico
pubblico numero uno.
“Passammo quell’estate del 1943 in una tenuta di alcuni amici a Perugia.
Mio fratello Manfredi che frequentava il collegio militare a Lucca ci
raggiunse a piedi, Andrea invece era con noi. Dopo l’8 settembre nostro
padre ci diede l’ordine di non muoverci, la situazione era molto
pericolosa, ma non riuscimmo a trattenere Manfredi che andò a Roma in
bicicletta e si unì all’organizzazione clandestina con documenti falsi.
Nostro padre teneva le fila non soltanto delle forze militari
clandestine ma coordinava i gruppi della Resistenza che si andavano
formando. ‘Mai avrei pensato – diceva – io monarchico di collaborare e
avere buoni rapporti con il comunista Giorgio Amendola”.
Giorgio Amendola, che diede l’ordine dell’attentato al battaglione SS
Bozen in via Rasella, da cui scaturì la rappresaglia nazista delle Fosse
Ardeatine. “Mio padre credeva alle forze armate clandestine spettasse
l’azione di intelligence e il controllo in città. Alla Resistenza
civile, che fu aiutata dal Fronte militare clandestino anche con il
rifornimento di armi, erano riservate azioni di sabotaggio in campagna.
Mio padre era molto preoccupato dalle rappresaglie e finché rimase in
libertà riuscì a tenere il controllo della situazione. Dopo il suo
arresto, il 25 gennaio 1944, dapprima i protagonisti della Resistenza si
dileguarono nel timore che parlasse. Ma quando si accorsero che il
colonnello Montezemolo riuscì a resistere alle torture, cominciarono le
azioni dei Gap”.
Adriana Montezemolo era rimasta a Perugia con la mamma e le sorelle
sino a fine dicembre 1943: “Il 27 dicembre venne a prenderci in macchina
un maresciallo dei carabinieri di cui mio padre si fidava. Prima
andammo un paio di giorni dai baroni Scammacca, quindi cominciammo a
frequentare le scuole al collegio di Trinità dei Monti, dove anche mia
madre viveva in una stanza del pensionato, mentre mio fratello Andrea
era nel collegio ucraino. Mio padre e mia madre si incontravano il
mercoledì in casa Scammacca verso le 14,30, poi di solito uscivano per
una passeggiata a Villa Borghese cercando di non dare nell’occhio.
All’ultimo incontro, credo il 19 gennaio, tre giorni prima dello sbarco
di Anzio, mio padre disse alla mamma che se gli americani non arrivavano
a Roma lui sarebbe stato preso. Si sentiva braccato, aveva cinque
polizie alle calcagna. La settimana successiva la mamma arrivò prima
all’appuntamento, ma attese inutilmente. Arrivò invece mio fratello
Manfredi con la notizia che il papà il 25 era stato arrestato”.
Chi era stato a parlare, a fare la delazione, a rivelare che sotto i
baffi a manubrio del “professor Giuseppe Martini” si nascondeva il capo
della Resistenza militare clandestina? “Ci sono state varie voci, potrei
dire dei nomi, ma la verità non si saprà mai. Speravamo che il papà non
fosse finito nelle mani delle SS. Una persona terribile, che dava
informazioni cercando di carpire denaro, ci disse che lo aveva visto a
Regina Coeli, tranquillo che giocava a carte. Strano, pensammo, il papà
non gioca a carte”.
Era invece nelle mani di Kappler nella prigione di via Tasso, dove venne
torturato per giorni. Nelle stesse stanze, oggi diventate museo, sono
esposti gli abiti del prigioniero Montezemolo: una camicia con le cifre,
un maglione inglese di marca Wolsey, la giacca e i pantaloni sdruciti.
“Una cugina si era offerta di portare un po’ di biancheria. Dalla
prigione di via Tasso filtrarono tre biglietti di mio padre, poi il
silenzio. Fino al 25 marzo, quando una donna mostrò a mia madre una
pagina del ‘Messaggero’ con la notizia che alle Fosse Ardeatine erano
stati giustiziati comunisti e badogliani… Vivemmo nell’angoscia e nella
speranza anche dopo aver ricevuto la comunicazione tedesca che potevamo
andare a ritirare in via Tasso gli effetti personali di nostro padre.
Magari, qualcuno ci confortava, l’anno portato al Nord. Speravamo che
l’intervento del Vaticano che avevamo sollecitato avesse avuto qualche
effetto. Avemmo la certezza che il colonnello Montezemolo era morto nel
peggiore dei modi alle fosse Ardeatine quando la mamma riconobbe alcuni
effetti personali, tra cui la fede nuziale, raccolti alle Mantellate,
nel luglio 1944, dopo la liberazione di Roma”.
Da allora è cominciata la meticolosa ricostruzione dei fatti, gli
incontri che con la memoria rinnovavano il dolore. “In anni recenti,
durante un dibattito a via Tasso mi è venuta incontro una signora, era
Carla Capponi (la compagna di Rosario Bentivegna che partecipò
all’attentato di via Rasella, ndr), mi raccontò che durante la
Resistenza aveva incontrato mio padre che le aveva consegnato delle
armi. Io la salutati, ma in maniera fredda. Forse ho sbagliato”.
L’ultimo ricordo di quella stagione terribile riguarda il capitato Eric
Priebke, il collaboratore di Kappler e interprete delle SS che partecipò
al massacro delle Ardeatine. “Arrestarlo in anni recenti – dice Adriana
sorprendendoci – è stato un errore. Non l’ho conosciuto ma ho avuto con
lui una corrispondenza epistolare attraverso il suo avvocato Paolo
Giachini. Gli chiesi se avesse conosciuto mio padre. Mi rispose che non
l’aveva mai incontrato. Strano, per uno che faceva l’interprete in via
Tasso. Ma perché non dovrei credergli?”.
(Il Corriere della Sera, 23 marzo 2015)
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