venerdì 25 marzo 2011

Memorie (e immagini) dell'eccidio delle Ardeatine: un articolo di Stefano Mannucci

Quando il 23 marzo 1944 vi fu l’attentato gappista in via Rasella di Roma, in cui furono uccisi una trentina di soldati appartenenti alla 11° compagnia del terzo battaglione delle SS Polizei Regiment Bozen, le PK (così venivano chiamati i fotografi tedeschi delle Propaganda Kompanien dell'esercito, dell'aviazione, della marina e della Waffen SS presso le quali erano appunto dislocati) fotografarono le fasi del rastrellamento, riprendendo un sottoufficiale del comando di Roma intento ad esaminare i resti della bomba, ma soprattutto immortalando i militari altoatesini del Polizei-Battaillon Bozen pattugliare la strada con le spalle al muro ed i fucili puntati alle finestre delle case, che furono crivellate di proiettili dai militari. Il battaglione, che da quindici giorni era solito percorrere quel tragitto, era composto da 156 uomini. Per la precisione, i morti totali dell’attentato furono trentatre. Trentadue soldati morirono immediatamente od entro poche ore, un altro soldato morì il giorno seguente. Come rappresaglia, furono 335 le persone uccise nella strage delle Fosse Ardeatine, ordinata dal colonnello Kappler.

I soldati fermarono chiunque passasse nei paraggi, perquisirono gli appartamenti e i fabbricati da cui si pensava fosse stato sparato, prelevandovi chiunque vi si trovasse in quel dato istante, arrestando così un gran numero di abitanti totalmente estranei al conflitto in atto. Una massa di arrestati, perseguiti, ritratti addosso alle mura di palazzo Pittoni, sotto lo sguardo vigile ed armato dei soldati.
E furono ancora le PK a riprendere i volti di quegli arrestati, a fotografare le persone schierate davanti la cancellata del Palazzo Barberini, controllate a vista dai fucili spianati dei soldati del III battaglione del Polizei-Regiment Bozen e del battaglione Barbarigo della X Mas. La violenza del rastrellamento rappresentava il preludio all’eccidio che sarebbe avvenuto nei giorni seguenti. Se queste fotografie riprendevano essenzialmente il momento delle indagini nelle vie, nessuna immagine fu prodotta del successivo eccidio delle Fosse Ardeatine.
D’altronde l’occultamento della strage e la segretezza delle esecuzioni, con il divieto assoluto di effettuare fotografie, era una tragica pratica che lo stesso Himmler sin dal 1941 aveva ordinato, al fine di evitare che le fosse dei martiri potessero divenire una meta di pellegrinaggio da parte dei civili.
Anche se nessuna fotografia è stata rinvenuta di quei drammatici momenti, essendo stata la strage condotta nella più assoluta segretezza, è senz’altro vivida nel suo dolore la testimonianza lasciata dal documentario Giorni di Gloria relativa alla successiva scoperta delle salme.
Le immagini in bianco e nero ripresero le ricerche degli scavatori nei cunicoli, che i tedeschi avevano ostruito con le esplosioni dei genieri e con mucchi di immondizia per meglio occultare lo scempio da loro perpetrato. Ripresero il momento del ritrovamento di quei corpi ammassati gli uni sugli altri così da formare una massa unica in una lugubre piramide, sommersi dal terriccio causato dalle esplosioni, le carni «mischiate con un impasto di terra e detriti in una massa indistinta, metà minerale, metà umana», i corpi trasportati ormai irriconoscibili sopra i tavoli dove si sarebbe cercato di ridonare loro un’identità. Corpi resi irriconoscibili dal logorio causato dagli agenti atmosferici e dai morsi dei topi. Visibili nelle immagini erano ancora le mani delle vittime legate con fili e corde dietro le schiene.
«Tutti i cadaveri erano legati con i polsi dietro il dorso, uno per uno, eccettuati due corpi legati insieme. Un altro cadavere aveva le mani legate davanti perché era mutilato di guerra e non aveva i movimenti liberi per precedenti anchilosi. Trentanove salme sono state trovate decapitate; ciò non è dovuto a un trauma, ma è il trauma stesso che ha cagionato la morte».
Con queste parole il medico legale Ascarelli testimoniò il ritrovamento delle salme, durante il processo contro Pietro Caruso, il questore fascista di Roma all’epoca dell’eccidio. Ascarelli, durante la sua deposizione, delineò anche le modalità delle esecuzioni, precisando come, eccetto le 39 salme decapitate, tutte le altre avessero «un colpo di arma da fuoco nella testa; colpo parietale, occipitale e qualche volta fronto-parietale. In tutte le regioni del cranio si trovava il forame. Qualche volta il colpo non era stato tirato all'occipite ma dieci centimetri al disotto cioè all'altezza della colonna vertebrale. Ciò spiega perchè molti cadaveri erano privi del capo che era stato spezzato con l'ultima vertebra cosicchè i legami tendinei avevano ceduto». Il medico legale, soprattutto, restituì il drammatico rituale della strage: «questi caduti devono essere stati condotti per gruppi e spinti nello sfondo delle grotte e, a mano a mano che passavano davanti a qualcuno, venivano uccisi con un colpo solo o al massimo due. A mano a mano che venivano avanti le vittime, il nuovo gruppo veniva spinto a forza sui cadaveri dei compagni uccisi. [...] Le vittime erano 335...non c'è dubbio che tutti sono stati uccisi insieme. Tutti legati allo stesso modo, con lo stesso tipo di corda e sempe spogliati degli oggetti che avevano addosso».
Le deposizioni dei carnefici al processo confermarono le deduzioni del medico legale. Kappler, nella sua deposizione, raccontò che «vi furono sessantasette esecuzioni a gruppo di cinque. Tornai dalle cave al mio ufficio. Mi vi trattenni un'ora e mezzo e nel frattempo mandai alle cave alcuni uomini del mio ufficio perchè sparassero "il loro colpo". Ritornai alle cave quando seppi che il mio subordinato Wetjen era ancora lì e non aveva sparato "il suo colpo". Gli domandai perchè non aveva sparato. Mi disse che sentiva ripugnanza. Allora gli spiegai tutte le ragioni per cui doveva compiere da buon soldato quell'atto. Mi rispose: "avete ragione, ma la cosa non è facile". Vi sentireste di sparare un colpo accanto a me? replicai. Alla sua affermativa risposta gli passati un braccio intorno alla vita e ci recammo insieme alla cava. Egli sparò accanto a me».
Come ha notato De Luna «in ginocchio, colpite alla nuca, le vittime caddero una sull'altra. Era esattamente la scena che il medico legale aveva "visto" materializzata nei corpi delle vittime. Un colpo per ogni ufficiale di Kappler, affinchè tutti fossero coinvolti su un piano di parità nell'esecuzione della strage».    
Le immagini in bianco e nero di Giorni di gloria si fermarono spesso a riprendere  gli oggetti appartenuti alle vittime, in molti casi unico legame possibile rimasto per donare un nome a quegli scheletri e teschi. Orologi, frammenti di lettere, parole scritte per un ultimo addio od un’ultima preghiera, brandelli di stoffe, unico legame per effettuare un’identificazione altrimenti impossibile.
Le immagini testimoniarono il pianto e le urla dei parenti, la disperazione di aver riconosciuto qualche caro fra i martiri delle Fosse Ardeatine, ma anche il dolore composto di quei parenti che raccontavano quelle giornate di smarrimento, quando non avevano notizie dei propri cari, e temevano quella sorte avversa che poi si sarebbe avverata.

Stefano Mannucci

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