E’ stata certamente avara di riconoscimenti Napoli verso Ettore Carafa. Fatta eccezione per una strada intitolata ad un vago Conte di Ruvo, non esistono monumenti o lapidi di una certa rilevanza in sua memoria. Come se ciò non bastasse nel palazzo che fu dei Carafa d’Andria al Largo San Marcellino, vi è stato ubicato un istituto scolastico intitolato alla regina Elena di Savoia. Non poteva arrecarsi un’offesa maggiore a colui che per la Repubblica Napoletana del 1799 sacrificò tutta la vita. E dulcis in fundo, il ritratto pubblicato a 206 anni dalla morte, e che pretenziosamente campeggia in numerosi siti web, dopo un’accurata perizia sull’immagine si è rivelato essere un falso storico.
Nato ad Andria (Puglia) il 29 dicembre del 1767 da Riccardo Carafa, Duca di Andria e Margherita Pignatelli Monteleone, Ettore trascorse i primi dieci anni di vita nel palazzo pugliese appartenuto secoli addietro ai Del Balzo, nobili feudatari che avevano dominato Andria fino a quando uno di loro, avendo partecipato alla congiura dei baroni, venne decapitato a Napoli.
Il 13 febbraio 1778 il padre Riccardo, fece iscrivere i figliuoli Ettore, Fabrizio e Carlo, ed il 5 febbraio 1783 anche l’altro figliuolo Francesco, nei registri delle fedi di battesimo degli appartenenti al Sedile del Nido a Napoli, dove era ascritta la storica famiglia dei Carafa.
Secondo i ricordi del Senatore Riccardo Carafa, uno strano caso accompagnò la nascita di Ettore. Un marmo del camino nell’appartamento abitato dalla duchessa madre si era spezzato come per incanto, proprio nel momento in cui il bambino veniva alla luce. Questo caso fu creduto di triste augurio e tra le genti del palazzo si sussurrava che il neonato avrebbe avuto una fine infelice. Primogenito di nove figli ebbe come precettore Franco Laghezza di Trani, insegnante dalle idee liberali che prese in seguito una parte molto attiva nella rivoluzione napoletana del 1799.
Nonostante gli ambiziosi disegni della madre Margherita Pignatelli di Monteleone, che desiderava vederlo investito da prestigiose cariche presso la corte borbonica, fin da giovane Ettore dimostrò di avere un’ indole anti-monarchica, ben lontana da tali progetti e del tutto incline alle nuove idee di libertà ed uguaglianza che arrivavano d’oltralpe. La corte di Napoli aveva ereditato dal medio-evo la superbia, non il valore, né la fede. L’indirizzo politico era tirannico ed immorale ed all’animo di Ettore, generoso ed intollerante, si univa l’educazione del Laghezza che lo rendeva sempre più nemico di quell’ordine di cose. A dieci anni venne a vivere a Napoli e, come ogni nobile del suo tempo, trascorse un decennio presso un collegio allora ubicato nel vicolo dei Bisi, l’attuale via Nilo, nelle vicinanze del palazzo Carafa d’Andria al largo S.Marcellino, ove in quegli anni viveva la nonna paterna, Maria Francesca de Guevara.
Ettore non amava la letteratura del mondo classico, ma la storia e fra tutti i libri continuò ad essere il suo prediletto per la vita il capolavoro di Plutarco, Le vite parallele. Cresceva nobile per indole oltre che per discendenza. Era contrario alla violenza tanto che aveva deciso di educare lui stesso il suo cavallo senza l’uso della frusta ed in poco tempo non solo riuscì a renderlo docile ed a cavalcarlo con dimestichezza, ma ad insegnargli finanche a salire le scale del suo palazzo.
Trascorso il periodo del collegio, con il maestro Laghezza e in armonia con le usanze dei nobili, partì per un lungo viaggio che da culturale si rivelò presto decisivo per il suo destino. Pur tenendolo nascosto alla famiglia, i cui genitori frequentavano assiduamente la corte borbonica e lo sapevano in giro per l’Italia, con Laghezza Ettore andò in Francia fermandosi diversi mesi, il tempo di vivere e respirare le nuove idee che la rivoluzione francese aveva generato. Seguiva con passione la lotta di quel popolo che a poco a poco si affermava nei suoi diritti; sentiva allargarsi l’animo lontano dalle grettezze e dalla tirannia che regnavano in Napoli. Restò a Parigi quanto più a lungo gli fu possibile e quando ritornò in Napoli, al principio del 1789, l’indignazione contro la tirannia aveva in lui acquistata l’intensità dell’odio.
Ma se era riuscito a tener segreta alla famiglia l’esperienza francese, la cosa non era sfuggita alla perfida regina Carolina, moglie del re Ferdinando, che aveva spie dappertutto. Ben presto fu da lei indicato sia negli scritti che verbalmente come l’Altiero, il Fatale, l’Arrabiato.
Ciononostante Ettore non faceva grande mistero della sua inclinazione alle nuove idee, anche mosso da esuberanza giovanile e da qualche esaltazione di fantasia; amava farsi vedere vestito alla francese, coi capelli corti, i calzoni lunghi ed il panciotto rosso.
Rifondò la loggia dei liberi Muratori con l’amico precettore Franco Laghezza e tenne presso il suo palazzo incontri con altri esponenti liberali. Tra i suoi più intimi amici c’erano i nomi più accesi alla causa rivoluzionaria tra cui Domenico Bisceglia, Mario Pagano ed Ignazio Ciaja, oltre ai nobili suoi coetanei Giuliano Colonna, Mario Pignatelli e Gennaro Serra di Cassano, tutti uomini che ritroveremo giustiziati nel ’99 sul patibolo di Piazza Mercato. Organizzò e partecipò a riunioni massoniche durante le quali, oltre a discutere di politica si infieriva sui ritratti dei sovrani e si cantava la Marsigliese.
Ettore fu arrestato nel 1795 con l’accusa di cospirazione e fu detenuto nella prigione di Castel S. Elmo fino al 1798, anno in cui riuscì ad evadere con degli aiuti esterni riportati dagli storici in maniera controversa. Secondo il Botta, storico realista, il conte fu aiutato da una giovane fanciulla di lui innamorata, e tale versione molto romanzata e romantica venne ripresa anche dal Vannucci. Per gli storici liberali, invece, Ettore fu aiutato da alcune guardie che si erano convertite alla nuove idee; per alcuni egli riuscì a scendere da una torre del castello tramite una corda lunghissima che gli pervenne nascosta in una chitarra costruita a tal scopo, per altri la corda fu messa per depistare la fuga che era avvenuta, invece, direttamente dalla porta principale, dopo aver corrotto la vigilanza di un custode con la somma di dodicimila ducati procurati dal fratello del conte, Carlo.
In qualunque modo sia avvenuta la fuga, certo è che il nostro conte di Ruvo la notte del 17 aprile 1798 era tornato libero e da allora la sua vita altro scopo non ebbe se non quello di organizzare delle truppe con l’ausilio dei francesi e di tornare a Napoli per liberarla dal sovrano tiranno. Sulla sua cattura fu messa una taglia di diecimila ducati e data la seguente descrizione: statura piuttosto bassa, corporatura delicata, capelli e ciglia castani e ricci, occhi cerulei, viso ingrugnato.
Dopo l’istituzione della Repubblica Napoletana proclamata dai patrioti in Castel S.Elmo il 21 gennaio 1799, dal Governo Provvisorio, con il grado di Colonnello, Ettore ebbe l’incarico di recarsi in Puglia a sedare le lotte dei realisti. Furono due le ragioni del Governo: la conoscenza che egli aveva della località, poiché lì possedeva i suoi feudi, Andria, Casteldelmonte, Corato e Ruvo, e la possibilità di far aumentare di numero i legionari in quei luoghi valendosi del prestigio della sua persona.
Nel giro di pochi giorni si costituì un esercito in buona parte composto da avanzi dell’esercito borbonico e da giovani di ogni ceto, fra i sedici ed i venti anni, alcuni dei quali provenivano da collegi religiosi. Lui li chiamava prevetarielli.
Tra i ricordi di famiglia riportati dal Senatore Riccardo Carafa nella sua monografia dedicata all’eroico antenato, si narra che giorno Ettore vide presentarsi per l’ammissione all’esercito, un giovanotto vestito da seminarista. Che vuoi prevetariello? gli chiese ironico Non mi riconoscete? - rispose il seminarista- Io sono de Siena, figlio di colui che vi ospitò in casa sua quando fuggiste da S.Elmo. Vengo per chiedervi di essere ammesso a far parte della legione che conducete nelle Puglie! - ed Ettore, scherzando - Ma lo sai che in guerra ci vogliono le palle? - E gli uomini per affrontarle! rispose fieramente il giovane. Il giorno dopo smise gli abiti di seminarista per la gloriosa divisa di soldato della Repubblica Napoletana.
La legione di Ettore, unita all’esercito francese, ebbe certo da annoverare tante vittorie, dalla conquista di Andria fino a quella di Pescara.
Ciononostante i controrivoluzionari avevano avuto il tempo di fortificarsi, capeggiati da Giuseppe Pronio, un famoso avanzo di galera, che per oltre quattordici anni era stato in carcere con l’accusa di svariati omicidi. Aveva riunito quattromila uomini, tra cui molti albanesi, intorno Pescara munendoli di armi, sulle mura e sulle alture ci aveva messo cannoni e mortai ed aveva chiuso la via del mare con una flotta di barche. Ettore ed i suoi patrioti continuavano a resistere valorosamente, asserragliati nella piazza di Pescara. Il cameriere personale del conte, Raffaele Finoia racconta che per tenere allegri gli ufficiali ed i signori del luogo Ettore cercava di organizzare balli nel palazzo del marchese del Vasto, dov’egli abitava.
Una sera mentre si ballava in casa del Conte una palla scagliata da un cannone entrò per un balcone nella sala dove si ballava nel mezzo dei danzatori che facevano una controdanza inglese, e la sala attraversò le due file della controdanza, ruppe il muro opposto e passò nella stanza contigua. Ognuno può immaginarsi lo spavento di quelle dame che caddero svenute chi da un lato che da un altro. Ma il conte dette animo a tutti e di ricominciò la danza. La vita continuava ed Ettore era un uomo a cui mai mancò né il coraggio, né la forza di proseguire nel suo glorioso cammino.
Ciononostante intorno a lui si tramavano odi e congiure per ucciderlo. Alcune furono scoperte da egli stesso, altre rimasero nell’ombra, come quella architettata da Pietro Severino, nominato purtroppo dal conte ignaro, comandante della piazza di Pescara.
La resistenza durò finché i viveri furono sufficienti a garantire la sopravvivenza ed era ancora viva la speranza di ricevere aiuti da Napoli e da Roma. Pronio, intanto, tra una sortita e l’altra e disparate trattative gli intimava di arrendersi, facendogli giungere amare notizie da Napoli ormai totalmente sottomessa alle armi regie. Ettore non cedeva e resisté con un pugno di patrioti fino all’ultimo respiro.
Ettore tornava a Napoli in una gabbia di ferro. Il 13 giugno, dopo una estenuante lotta da Castel Sant’Elmo, i patrioti napoletani si erano arresi alle truppe del Cardinale Fabrizio Ruffo che, appoggiato dai lazzari, restituiva il regno delle due Sicilie nelle mani del re Borbone. Le capitolazioni promesse dal Ruffo in cambio della resa e negate poi dal monarca provocarono un’ecatombe. Centinaia furono le condanne a morte per forca e mannaia e Napoli vide soffocato nel sangue il primo seme gettato per il Risorgimento italiano. Fu per esso sacrificata la vita della migliore nobiltà napoletana e dei più benemeriti intellettuali che il Sud dell’Italia potesse vantare. Furono i lazzari a vincere, il Sant’Antonio stampato sugli stendardi borbonici vinse sul San Gennaro detto anch’egli giacobino per aver fatto il miracolo sotto gli occhi del francese Championnet.
Era il 19 di agosto quando Ettore, tradotto a Napoli, venne rinchiuso nel castello del Carmine, luogo tristemente noto come L’anticamera della morte. Prigioniero eccellente fu sommariamente processato in carcere e l’istanza del giudice borbonico de Guidobaldi fu ferocissima. Lo voleva affocato, precedente lo strascino e le tenaglie, indi fatto a pezzi, bruciato e le ceneri sparse al vento. Di poi demolito il suo palazzo ed in quel luogo erettavi una colonna per mettervi al di sopra la di lui testa.
Quali siano state le torture che Ettore abbia subito in carcere, prima di essere decollato senza pompa, ossia senza il privilegio di servitori di famiglia ad assisterlo in quel tragico momento, non vi sono documenti a testimoniarlo ma l’ostinazione abbattutasi sulla sua persona lasciano intuire che siano state crudelissime. Si racconta che oltre alle catene, fu tenuto al muro da un collare di ferro che gli avrebbe impedito di coricarsi e di dormire per oltre quindici giorni. Da lì febbre alta, ferite, allucinazioni. Ma non aveva paura di morire. E’ già da tanto che aspettava la morte.
Quando i giudici lo raggiunsero in carcere e gli si rivolsero insultandolo, ad uno di loro, scuotendogli i polsi stretti dal ferro ed insanguinati sul viso, lo interruppe dicendo: Se fossimo entrambi liberi parleresti più cauto. Ti fanno audace queste catene!
All’alba del 4 settembre le strade di Napoli erano percorse da numerose pattuglie di soldati e nella piazza del Mercato si elevava la ghigliottina dipinta di rosso
Dai Registri della Congregazione dei Bianchi ( i monaci che avevano il triste compito di confortare e poi accompagnare i condannati a morte fino al patibolo) risulta che il Conte di Ruvo sia morto in pace con la sua anima e che prima di essere condotto al patibolo, il 4 di settembre, abbia chiesto di vedere il confessore (quel giorno era preposto il padre Sersale) e che abbia pregato con lui a lungo prima di avviarsi alla morte. Alle ore 18 tornò alla cappella il Sersale richiesto dal Paziente. Alle ore 20 uscì la compagnia dall’Oratorio per l’esecuzione. Alle 21 Ettore uscì dal castello lacero, con la barba lunga e fu condotto sul palco allestito nella piazza del Mercato, percorrendo la via del Carmine. Passò davanti alla chiesa dove da lì a poco sarebbe stato sepolto il suo cadavere martoriato. Giunse al patibolo con la testa alta, con un sorriso di disprezzo sulle labbra ed ancora vestito con la divisa da Generale della Repubblica. Intrepido salì sul palco, ascoltò la sentenza con le braccia conserte, guardando il popolo affollato e silenzioso. Finita la lettura il boia Tommaso Paradiso gli si appressò per spogliarlo. Egli lo respinse con disprezzo e si spogliò da sé. Nella piazza regnava un silenzio di morte. Il boia gli indicò di mettersi in ginocchio sotto la mannaia. Dirai alla tua regina come seppe morire un Carafa! Furono le ultime sue immortali parole prima di porsi supino e sbendato sotto la lama assassina. Poi fissò gli occhi al cielo. Forse in quell’ultimo bagliore di vita intravide i compagni già trapassati che lo stavano lassù ad attendere. Un colpo secco ed in un attimo vi ascese.
Dai Registri della Congregazione dei Bianchi ( i monaci che avevano il triste compito di confortare e poi accompagnare i condannati a morte fino al patibolo) risulta che il Conte di Ruvo sia morto in pace con la sua anima e che prima di essere condotto al patibolo, il 4 di settembre, abbia chiesto di vedere il confessore (quel giorno era preposto il padre Sersale) e che abbia pregato con lui a lungo prima di avviarsi alla morte. Alle ore 18 tornò alla cappella il Sersale richiesto dal Paziente. Alle ore 20 uscì la compagnia dall’Oratorio per l’esecuzione. Alle 21 Ettore uscì dal castello lacero, con la barba lunga e fu condotto sul palco allestito nella piazza del Mercato, percorrendo la via del Carmine. Passò davanti alla chiesa dove da lì a poco sarebbe stato sepolto il suo cadavere martoriato. Giunse al patibolo con la testa alta, con un sorriso di disprezzo sulle labbra ed ancora vestito con la divisa da Generale della Repubblica. Intrepido salì sul palco, ascoltò la sentenza con le braccia conserte, guardando il popolo affollato e silenzioso. Finita la lettura il boia Tommaso Paradiso gli si appressò per spogliarlo. Egli lo respinse con disprezzo e si spogliò da sé. Nella piazza regnava un silenzio di morte. Il boia gli indicò di mettersi in ginocchio sotto la mannaia. Dirai alla tua regina come seppe morire un Carafa! Furono le ultime sue immortali parole prima di porsi supino e sbendato sotto la lama assassina. Poi fissò gli occhi al cielo. Forse in quell’ultimo bagliore di vita intravide i compagni già trapassati che lo stavano lassù ad attendere. Un colpo secco ed in un attimo vi ascese.
Hoc fac et vives (Fa questo e vivrai). Ettore realizzò in pieno il motto dei Carafa. Con la libertà nel cuore sacrificò per essa la vita e visse per sempre.
Curiosità storiche
Il corpo di Ettore venne seppellito la sera stessa del 4 settembre nei sacelli del pronao nell’atrio della chiesa del Carmine Maggiore.
Quando furono raccontati al re Ferdinando i particolari della esecuzione del conte di Ruvo egli sorridendo escalmò – O’ duchino a fatto o’ guappo fino all’ultemo!-
Il fratello di Ettore, Carlo (Andria 1774-1856) riuscì a scappare in Francia mentre un altro fratello, Francesco (Andria 1772-Portici 1844) che aveva militato nella Guardia Nazionale contro le bande del cardinale Ruffo, fu fatto prigioniero. I lazzari avevano progettato di bruciarlo vivo ma il Ruffo riuscì ad impedirlo. Dal 1799 ereditò da Ettore il titolo di 17°Conte di Ruvo 14° Duca di Andria.
Si sposò nel 1803 con Teresa Caracciolo, figlia del principe di Santobuono ed ebbe 5 figli. A due di essi, pur offendendo la memoria ed il sacrificio del fratello diede il nome di Ferdinando e Carolina.
I ritratti di Ettore: Falsi storici - damnatio memoriae.
Di che colore erano gli occhi di Ettore ed i capelli ed i lineamenti del volto?
Un mistero che probabilmente non sarà mai svelato. Nonostante le recenti pubblicazioni di immagini i dubbi sull’attendibilità di quanto ci viene proposto, invece che dissiparsi, si sono amplificati.
Di lui esistono almeno tre ritratti profondamente diversi tra loro: due certo postumi ed un altro pubblicato nel 2006 e di proprietà dell’attuale duca Riccardo Carafa d’Andria.
Di lui esistono almeno tre ritratti profondamente diversi tra loro: due certo postumi ed un altro pubblicato nel 2006 e di proprietà dell’attuale duca Riccardo Carafa d’Andria.
Nel primo, comparso nell’opera di Atto Vannucci, I martiri della libertà italiana, Livorno 1849, più che un conte, il nostro Ettore è stato raffigurato come un brigante e non esistono descrizioni fisiche documentate compatibili con l’immagine proposta. A meno che non si tratti di un fatale errore del Vannucci, il ritratto non presenta alcuna attendibilità.
Nell’altro ritratto postumo, invece, di autore sconosciuto, Ettore è in divisa da Generale, occhi turchini e capelli castano chiari, cicatrici su fronte e sopracciglio, aria spavalda, fascino da avventuriero, molto vicina al personaggio che traspare dalla descrizione riportata da Mariano D’Ayala (ripresa da un identikit dell’epoca), dal soldato De Siena (fatta eccezione per i capelli nerissimi) e dallo scrittore ottocentesco Ippolito Nievo.
Tanto ci sarebbe da discutere, invece, sul ritratto pubblicato a 206 anni dalla di lui morte e messo a disposizione dall’attuale duca Riccardo Carafa d’Andria, che pare averlo rinvenuto in antiche cassapanche di famiglia mai aperte prima e fatto divulgare da sedicenti esperti del settore e che tra l'altro, detengono anche dei diritti sull'immagine.
E’ evidente che il nostro conte di Ruvo appare una persona totalmente differente dalle altre immagini di lui rinvenute: pressappoco ventenne, capelli e occhi scuri, leggermente strabico, pallido da far pensare d’essere di salute cagionevole e abiti forse un po’ troppo “antiquati” per essere quelli di un futuro repubblicano.
Ma al di là della lampante e raccapricciante metamorfosi fisica, tra le tre persone immortalate, incuriosisce ancor di più pensare come il senatore Riccardo Carafa d’Andria (nonno dell’attuale duca), pur avendo a disposizione questo ritratto giovanile di Ettore e pur avendo scritto per l’antenato una bella monografia commemorativa alla fine dell’Ottocento, non abbia pensato di pubblicarlo allora e non solo nel suo lavoro, ma anche nell’Albo storico di Benedetto Croce, che in occasione del centenario, stava raccogliendo con Di Giacomo, D’Ayala (Michelangelo figlio di Mariano) e Ceci le “reliquie” dei martiri del ’99. Si parla di un disaccordo tra i due, ma tale notizia non è certo suffragata dal fatto che in seguito Carafa e Croce fondarono insieme la famosa rivista Napoli Nobilissima. Forse il senatore Riccardo, pur avendo cercato di raccogliere tante memorie del suo glorioso antenato, non sapeva dell’esistenza di quelle cassapanche custodi proprio del ritratto di Ettore? L’ipotesi a modesto avviso sembra molto ingenua, improponibile ed improbabile e non può che destare grosse perplessità.
E’ vero che la storia è fatta dalle imprese degli uomini e non dai ritratti ma, considerate la tante distorsioni che la damnatio memoriae ha inflitto ai protagonisti del 1799 napoletano, non è poi così strambo notare, fino a ragionevole prova contraria, periziata e documentata da seri esperti del settore, che anche questo ritratto di Ettore venuto alla luce a 206 anni dalla morte, sia forse una ennesima mistificazione della verità storica. In fondo è proprio la sana curiositas che mette in moto la filosofia della storia, la ricerca della verità.
Tratto da “La Penna e La Spada” di Antonella Orefice
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