di Massimo Coltrinari
In piena guerra venne creata, dalla fusione di tre preesistenti organismi che si occupavano della sicurezza nazionale, una branca di intelligence britannico, denominata Special operations executive (Soe), cui venne affidato il compito di gestire le covert operations e dirigere i movimenti di resistenza armata nei territori occupati dai tedeschi.
Anche all’Italia questo organismo riservò una grande attenzione e cercò di stabilire contatti con quasi tutti i settori dell’opposizione al regime, dall’antifascismo azionista sino alla fronda istituzionale.
Il ruolo svolto dai servizi segreti inglesi per la destabilizzazione del regime fascista e i rapporti stabiliti con ambienti della Resistenza in Italia sono stati oggetto, a partire dalla seconda metà degli anni ottanta, in coincidenza con l’apertura degli archivi inglesi, di numerosi e rigorosi studi, ma anche, purtroppo, di servizi giornalistici semplicistici, fondati sull’utilizzazione acritica di documenti spesso di seconda mano. Ai lavori di Massimo De Leonardis su La Gran Bretagna e la Resistenza Partigiana in Italia (Elsevier, 1988), di Tommaso Piffer su Gli Alleati e la Resistenza italiana (Il Mulino, 2010), di Mauro Canali su Leo Valiani e Max Salvadori. I servizi segreti inglesi e la Resistenza (Nuova Storia Contemporanea, 2010) si aggiunge ora un importante volume di Mireno Berrettini, dal titolo La Gran Bretagna e l’antifascismo italiano. Diplomazia clandestina, intelligence, operazioni speciali (Le Lettere) in libreria a fine mese. Si tratta della prima parte di una meticolosa ricerca sulla politica della Gran Bretagna nei confronti della resistenza partigiana in Italia fino al 1945, effettuata da uno studioso che ha setacciato gli archivi inglesi e quelli italiani con un rigore metodologico e una intelligenza critica che gli hanno consentito di evitare il rischio di semplificazioni e generalizzazioni.
Uno dei risultati più significativi del lavoro sta nell’aver colto l’esistenza di una pluralità di linee politiche e di approcci strategici nei confronti dell’antifascismo italiano all’interno dei vari organismi di intelligence e di altri settori dell’amministrazione britannica. Le posizioni, per esempio, di Baker Street (cioè dello Special operations executive) e quelle del Foreign office erano spesso divergenti e alcune iniziative, studiate o sponsorizzate all’interno dell’una o dell’altra struttura, erano addirittura ascrivibili all’attivismo individuale e circoscritto di alcuni funzionari.
Vi era, poi, in linea generale, una valutazione profondamente diversa da parte di Baker Street e del Foreign office nei confronti dell’atteggiamento da riservare all’Italia. Lo Special operation Service, in realtà, aveva cominciato a interessarsi in maniera davvero concreta dell’Italia (anche se erano state coltivate da tempo, senza grandi successi, relazioni con il fuoruscitismo negli Stati Uniti), più o meno, a partire dal marzo 1943, quando cioè l’ormai prevedibile vittoria in Africa settentrionale rendeva non solo plausibile ma addirittura prioritaria la prospettiva di uno sbarco nelle isole italiane e di una avanzata lungo la penisola che avrebbe dovuto concludersi con la capitolazione di Roma. L’attivismo del Soe, per la verità, veniva guardato con perplessità dal Foreign office, dal War Cabinet e da altri ambienti istituzionali per più motivi. In primo luogo, perché le operazioni iniziali messe in piedi dal Soe, dai tentativi di «reclutamenti» fra i prigionieri alle attività sovversive imbastite durante il primo triennio
di guerra, non avevano dato risultati soddisfacenti. In secondo luogo, perché certe «simpatie» italiane all’interno del Soe confliggevano con l’indirizzo politico, sostanzialmente «punitivo», adottato dal Foreign office e fatto proprio dall’intero War Cabinet nei confronti dell’Italia. Al Soe, in sostanza, si lasciava mano libera solo per avviare cauti sondaggi operativi con quanti si dimostravano disponibili a collaborare con gli inglesi.
Ambiguità e incertezza, insomma, caratterizzarono, per molto tempo, i contatti segreti con l’antifascismo. Dalla seconda metà del 1942 e all’inizio del 1943 crebbero fortemente le quotazioni del maresciallo Badoglio. Il Foreign office nutriva scarsa considerazione per il conte Sforza, leader naturale dell’emigrazione antifascista ma senza seguito nella penisola, e aveva, invece, un «occhio di riguardo» per Badoglio, visto come personalità «critica» nei confronti del regime e, certo, più forte. Si prestò attenzione - e ve n’è traccia in rapporti informativi - a voci di una possibile assunzione del potere da parte del Principe di Piemonte assistito da un triumvirato composto da Badoglio, Bottai e Grandi, al punto che si decise di provare a stabilire un collegamento con Badoglio, destinato poi a fallire.
Più consistenti furono i contatti del Soe col Partito d’Azione a ridosso del 25 luglio e, poi, tra il 25 luglio e l’8 settembre 1943. essi si concretizzarono nelle «missioni», ricostruite in dettaglio da Berrettini, del console di Lugano, Filippo Caracciolo duca di Melito, e di Ugo La Malfa a Londra. Sempre nell’estate del 1943, il Soe, grazie all’interessamento di Dulles, aprì un contatto con l’industriale Adriano Olivetti, ritenuto particolarmente adatto per la sua ascendenza ebraica e per le sue assicurazioni di antifascismo, testimoniate, malgrado l’affiliazione al Pnf nel 1933, da una serie di attività contrarie al regime e dalla sua contiguità con gli ambienti di Giustizia e Libertà. Olivetti fornì agli inglesi un quadro prezioso della «fronda» moderata che andava da Badoglio a Ivanoe Bonomi, dalla Principessa di Piemonte al maresciallo d’Italia Enrico Caviglia fino al generale Cadorna, tuttavia considerato troppo legato a Umberto. La collaborazione fra il Soe e l’industriale non portò grandi frutti perché gli interlocutori avevano visioni diverse: Olivetti pensava a una soluzione politica - giunse persino a giocare la carta del «coinvolgimento » della Santa Sede come possibile intermediario di colloqui tra la Famiglia Reale italiana e il governo britannico - laddove, invece, il Soe si era convinto che si dovesse ormai puntare sulle azioni sovversive e su una «non opposizione» all’invasione. Dalla ricostruzione, effettuata con puntigliosa cura da Berrettini, di covert operations, «diplomazie clandestine» (Emilio Lussu e Pietro Badoglio), «missioni» (Caracciolo, La Malfa, Olivetti) e via dicendo emerge un quadro pieno di chiaroscuri centrato sull’immagine di un antifascismo, in particolare il fuoruscitismo, spesso velleitario e di una Gran Bretagna prigioniera di pregiudizi e stereotipi sugli italiani. Ma emerge anche il fatto che, alla lunga, nel dopoguerra, le relazioni privilegiate con gli inglesi, stabilite in quel periodo, avrebbero dato i loro frutti.
(Rassegna ANRP, 1-3 Gennaio-Marzo 2011)
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