giovedì 28 aprile 2011

I sopravvissuti alla banalità del male

di Mario Avagliano

Ferramonti di Tarsia
“Tutto intorno al campo ci sono delle guardie che, col fucile sulle spalle, sono pronte a sparare contro chiunque tentasse di fuggire. Spesse volte guardo con invidia gli uccellini che svolazzano spensieratamente dove vogliono, e volentieri mi tramuterei anche io in un uccello per respirare l’aria libera. Ecco cosa ci manca: la libertà!”. Così scrive la diciassettenne ebrea Gisella Weiz dal campo di concentramento di Ferramonti di Tarsia, in Calabria, nel 1940.
Finora nessuno nel nostro Paese aveva ricostruito la storia de Gli ebrei sotto la persecuzione in Italia - questo il titolo del mio libro, scritto assieme a Marco Palmieri - attraverso le parole delle vittime.
Il ricorso alle lettere e ai diari dei protagonisti di quella pagina nera della nostra storia nazionale (molti brani saranno letti alla presentazione di domani 29 aprile ad Avellino al Circolo della Stampa, alle ore 19), ci consente di ripercorrere come in una cronaca dal vivo l’intera vicenda, dall’emanazione delle leggi razziali fasciste del 1938 fino al suo saldarsi con il progetto di Hitler dello sterminio degli ebrei in Europa.
Scopriamo così che tra il settembre e il novembre del 1938 da un giorno all’altro l’Italia considerò i nostri connazionali ebrei “stranieri in Patria”, espellendoli dalla società civile, dall’esercito, dalla scuola, dai posti di lavoro statali (e in seguito anche dal settore privato), con l’interdizione ad accedere in alcuni locali pubblici e a un certo punto perfino sulle spiagge.
Dalle lettere e dai diari emerge un senso di tradimento; come scrive Emma De Rossi: “L’Italia ci ha rinnegato”. E poi c’è lo stupore: “mai avrei potuto pensare – annota sul suo diario Luciano Morpurgo - che da noi, nella civile e gentile Italia ‘madre delle genti’, potesse allignare la triste pianta dell’antisemitismo”. Per chi comprende per tempo l’entità del pericolo ci sono solo le partenze all’estero, le dispersioni di famiglie e talora la scelta estrema del suicidio.
Con l’entrata in guerra dell’Italia nel giugno del 1940, le misure persecutorie nei confronti degli ebrei divennero più pesanti. Furono istituiti campi di concentramento e luoghi di confino per gli ebrei stranieri e per quelli ritenuti pericolosi, come i campi di Campagna a Salerno e di Solofra in Irpinia.
Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, gli ebrei che si trovavano nel Meridione furono liberati dagli Alleati. A Napoli solo la rivolta popolare delle Quattro giornate evitò la retata già progettata dalle SS nei confronti della numerosa comunità ebraica locale. Nel Centro-Nord occupato dai soldati della Wermacht, invece, iniziò la caccia agli ebrei, con la complicità attiva della polizia e delle strutture della neonata Repubblica Sociale di Mussolini.
Dei 6.806 ebrei catturati dalle SS e dai fascisti e deportati nei lager nazisti solo circa 800 tornarono a casa. La maggior parte di loro fu uccisa o morì di stenti, di fame, di torture. “Io ad Auschwitz – racconta in una lettera un’ebrea sopravvissuta - sono rimasta quattro giorni soli: se ci fossi rimasta un solo giorno di più penso che sarei impazzita. In tutti quei giorni ho potuto mangiare una sola volta pochi bocconi di zuppa: sono stata in appello per delle ore consecutive di giorno, di notte, continuamente, ho ricevuto tante di quelle botte quante non avrei potuto mai immaginare, ho assistito per lo meno a tre selezioni, ho visto scene di orrore inenarrabili, ho sentito quell’indimenticabile, caratteristico odore di crematorio, ho fissato come un’allucinata le fiamme dei forni...”.
Il racconto corale che viene fuori dalle lettere e dai diari degli ebrei, getta molta luce sulle responsabilità del regime fascista e di gran parte della società italiana e permette di capire quanto sia infondato quel mito di “italiani brava gente” sul quale per troppo tempo il nostro paese ha cercato di rimuovere il suo passato non proprio onorevole per non farvi i conti fino in fondo.
Nelle tappe del mio tour della memoria della persecuzione che ha toccato tutta l’Italia, dalla Lombardia alla Sicilia, una domanda ricorrente venuta dai ragazzi è stata: “Come faccio a convincere il mio amico/la mia amica che tutto questo è veramente accaduto? Che anche noi italiani abbiamo forti responsabilità?”.
Io credo che leggere le parole commoventi delle vittime e le loro storie e i loro drammi individuali - testimonianze vere, coeve, di quel tempo - costituisca il migliore argomento per rigettare il negazionismo di alcuni storici, che mettono in dubbio la violenza del fascismo, la Shoah e l’esistenza delle stesse camere a gas.
Sono passati oltre 60 anni da quell’epoca e gli ultimi testimoni, per ragioni anagrafiche, stanno scomparendo. Ecco perché abbiamo sentito il dovere civico di raccogliere le lettere e i diari dai sopravvissuti, dalle famiglie dei perseguitati e dagli archivi polverosi, e di pubblicarli, prima che si perdessero per sempre. Nella convinzione che rappresentino un antitodo anche verso l’antisemitismo risorgente, testimoniato dalle scritte abominevoli apparse il 25 aprile nel quartiere Pigneto di Roma, riproducenti il celebre motto di Aushwitz “Arbeit macht frei” (Il lavoro rende liberi) e dai ben 1200 siti internet antiebraici censiti nel gennaio scorso dalla polizia postale. Memore di quanto scrisse Angelo Fortunato Formiggini nel 1938 nell’atto estremo di togliersi la vita a causa delle leggi razziali: «Né ferro né piombo né fuoco / possono salvare / la libertà, ma la parola soltanto. / Questa il tiranno spegne per prima. / Ma il silenzio dei morti / rimbomba nel cuore dei vivi».

(Il Mattino, 28 aprile 2011)


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