Una lettera indirizzata ad “Alfredo Tartarone, presso famiglia Cirino, via Roma 109 Napoli”, con quattro timbri, uno circolare in alto a sinistra con l’indicazione “Campo concentramento Pollenza” ed uno stemma al centro, uno rettangolare “Verificato per censura”, gli altri due degli uffici postali di Pollenza (Macerata) e di Napoli, con le date del dicembre 1941. La storia dimenticata dell’ebrea napoletana Suzette Tartarone è rispuntata così, grazie ad una busta ingiallita finita tra le mani di Gaetano Bonelli, un collezionista napoletano cultore della memoria cittadina (che ha formato negli anni un poderoso archivio che va dal ‘500 ad oggi), e grazie alle ricerche appassionate di un cronista de il Mattino, Paolo Barbuto, con il concorso dell’assessore comunale al patrimonio, Marcello D’Aponte, nipote di Suzette che, letto il primo articolo dello stesso Barbuto, lo ha aiutato a ricostruire la vicenda della zia.
21 dicembre 1941, mancano pochi giorni a Natale. “Babbo Amatissimo – esordisce Suzette – (…) l’anno nuovo cominciato in cattività mi sembra di cattivo augurio e mi sento molto avvilita, molto stanca di questa vita infamante…”. La ragazza scrive al padre dal campo di concentramento di Pollenza, vicino Macerata.
L’ingresso in guerra dell’Italia, nel giugno del 1940, ha avuto come effetto l’aggravarsi delle misure persecutorie nei confronti degli ebrei. Il regime fascista, infatti, decide l’internamento in campi di concentramento o in luoghi di confino degli ebrei stranieri o apolidi e degli ebrei italiani ritenuti pericolosi. Per effetto di questa decisione vengono internati oltre 6.000 ebrei stranieri e circa 400 ebrei italiani.
Il provvedimento colpisce anche Suzette, nata dalla relazione tra il napoletano Alfredo Tartarone e un’ebrea francese, anche se la ragazza è cresciuta a Napoli col padre. Nella primavera del 1941 viene destinata al campo di Pollenza, ubicato in una ex villa patrizia, Villa Lauri, di proprietà degli eredi del marchese Carlo Costa. È internata lì assieme a circa cinquanta donne slave, greche, francesi, polacche e di altre nazionalità, la maggior parte di origine ebraica.
Nelle tre facciate della lettera di Suzette, le annotazioni familiari fanno commuovere. La giovane napoletana è legata al padre da un affetto immenso: “Ti ho spedito un piccolo pacco che, voglio sperare, non ti sembrerà troppo meschino. È un piccolo regalino per te”. E dalle sue parole traspare, nonostante tutto, la forte voglia di vivere. Come quando chiede notizie del matrimonio della parente Amina, oppure quando scrive “Sarò lieta di ricevere il pacco dalle dolci cose che mi fanno venire l’acquolina in bocca solo a pensarci”.
La missiva si conclude con il timore del futuro e una citazione dantesca: “Credo che non uscirò più di quel ginepraio sul portone del quale dovrebbe essere scritto in lettere di fuoco: voi che entrate qui, lasciate ogni speranza”. E un ultimo saluto al babbo: “Ti bacio con una tenerezza infinita. Figliola Suzette. Buon anno!”.
La vicenda di Suzette è a lieto fine, per fortuna. Il nipote Marcello D’Aponte racconta che dopo circa due anni e mezzo di internamento a Pollenza, fu salvata dallo zio Carlo Borntraeger, che aveva sposato in seconde nozze la sorella di papà Alfredo. All’epoca Borntraeger, figlio di un docente tedesco di Wiesbaden trasferitosi a Portici per insegnare alla facoltà di Agraria, era generale di corpo d’armata e convinto fascista. Dopo l’armistizio del settembre 1943 aderì alla Repubblica Sociale e Mussolini lo fece nominare questore di Torino. In questo ruolo, tuttavia, aiutò molti antifascisti ed ebrei a sottrarsi alla cattura dei tedeschi, come è testimoniato dalle lettere di ringraziamento conservate gelosamente dalla nipote Elvira Carleo.
Le circostanze del salvataggio di Suzette non sono state ancora chiarite, ma grazie allo zio la giovane ebrea napoletana, all’indomani dell’armistizio dell’8 settembre del 1943, a differenza della maggior parte delle altre “ospiti” del campo di Pollenza non salì sui treni piombati diretti nei lager del Terzo Reich. Nel dopoguerra tornò a Napoli, dove morì alla fine degli anni Settanta.
Una storia ritrovata. Ma chi sa quante sono ancora le lettere di ebrei italiani scritte in quel terribile periodo della persecuzione dei diritti e delle vite e dimenticate in bauli o in vecchie scatole. Lettere come quella di Suzette, che potrebbero raccontarci una pagina nera della storia d’Italia troppo sbrigativamente archiviata oppure derubricata ad appendice minore della tragedia della Shoah.(Pagine Ebraiche, n. 5, maggio 2011, pp. 34-35)
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