di Eugenio Di Rienzo
Subito dopo la fine del secondo conflitto mondiale negli ambienti neo-fascisti si accreditò la convinzione che la sconfitta italiana non era dovuta alla responsabilità di Mussolini ma a quella dei suoi generali accusati di avergli nascosto la nostra impreparazione militare per compiacere i suoi sogni di gloria. Allora si parlò addirittura del frettoloso spostamenti di carri armati, aerei, pezzi di artiglieria pesante da una base all’altra, in occasione delle visite del Capo del Governo, per persuaderlo che l’impeto della famosa «foresta di 8 milioni di baionette bene affilate e impugnate da giovani intrepidi e forti» sarebbe stato appoggiato dallo spiegamento di un formidabile apparato tecnologico. Che questa leggenda metropolitana contenga almeno un nocciolo di verità lo dimostra il volume ora tradotto in italiano di John Gooch, professore emerito di Storia internazionale all’Università di Leeds: Mussolini e i suoi generali. Forze armate e politica estera fascista 1922-1940, Gorizia, Libreria Editrice Goriziana, 2011, pp. 763, € 30,00.
Si tratta di una ricerca diligente e ben documentata che parte dall’ipotesi che l’esigenza di Mussolini di controllare gli Alti Comandi lo spinse a nominare una serie di adulatori che, se non costituivano una potenziale opposizione, erano del tutto privi d’iniziativa, di senso della responsabilità e delle necessarie competenze strategiche e politiche. Allevati alla più supina condiscendenza nell’harem di Palazzo Venezia, questi generali si comportarono molto diversamente dai loro pari grado tedeschi che, alla vigilia dell’invasione della Polonia, avevano ammonito il Führer sui rischi di uno scontro che «sarà una guerra di materiali e di usura, una guerra da combattere soprattutto sul piano economico e che non potrà non condurre la Germania ad un disastro senza precedenti».
Nell’ottobre del 1939, il Capo di Stato Maggiore e Sottosegretario alla Guerra, Alberto Pariani, annunciava trionfalmente che il piano di potenziamento delle Forze Armate, stabilito nel 1938, era stato ormai quasi portato a termine e che l’Italia avrebbe potuto contare nel maggio 1940 su un totale di 88 divisioni di cui 64 a organico completo. Il 1° novembre, Badoglio smentiva categoricamente queste previsioni, sostenendo che soltanto 10 divisioni erano perfettamente operative e che il dispendio di materiali, utilizzati in Etiopia e Spagna, aveva provocato una forte penuria di artiglieria, munizioni, automezzi, carburante e uniformi. Nonostante una vera e propria corsa contro il tempo per correre ai ripari, alla data del nostro ingresso del conflitto la situazione non era migliorata e sempre Badoglio dovette prendere atto, nel giugno 1940, che «dopo aver tanto parlato di guerra offensiva a rapido corso, l’Italia era obbligata ad attestarsi sulla difensiva, sperando di non essere attaccata».
Mi pare tuttavia che la tesi esposta da Gooch non sia del tutto convincente come accade per tutti i lavori di storia militare che astraggono dal più generale contesto politico e diplomatico. Mussolini, che dal luglio 1933 aveva assunto l’interim dell’Esercito, della Marina e dell’Aereonautica, non poteva essere all’oscuro della nostra debolezza militare. Quella debolezza fu, invece, il frutto di una sua decisione poiché le somme destinate al riarmo, pure in progressiva crescita dal 1934, non oltrepassavano di poco, al momento del nostro ingresso nel conflitto, i 70 milioni di lire: una cifra nettamene inferiore a quella impegnata dalle altre Grandi Potenze. La parte più cospicua del bilancio statale fu utilizzata nella costruzione d’infrastrutture, nel sostegno alle industrie civili e nella realizzazione del Welfare fascista e non soltanto, come Gooch sostiene con scarsa conoscenza dei fatti, per «finalità inutili e sbagliate come imponenti edifici, stadi sportivi, splendide parate».
Perché, dunque, Mussolini si gettò in un’avventura destinata a sicuro disastro? Avanzo, qui, alcune ipotesi. Il timore che un nostro sfilarsi dall’alleanza con Berlino avrebbe provocato una ritorsione militare di Hitler con il rischio, prospettato da Badoglio, di veder dilagare in pochi mesi le divisioni del Reich nella pianura padana. La speranza di poter condurre una «guerra simulata» contro gli Alleati che avrebbe portato in breve a una pace di compromesso. Poi la certezza che, grazie alla poderosa macchina bellica tedesca, la Germania avrebbe avuto facilmente ragione dei suoi avversari.
Infine, la previsione che l’Urss non solo sarebbe restata neutrale ma che avrebbe potuto, in un prossimo futuro, affiancarsi all’Asse come lasciavano sperare le trattative tra Molotov e Ribbentrop. Pochi, infatti, ricordano che, a fine giugno 1940, Roma era sul punto di firmare con Mosca un patto di collaborazione economico e politico con cui l’Italia «in cambio del riconoscimento della sua situazione di preminenza nel Mediterraneo» era disposta a garantire alla Russia «eguali prerogative nel Mar Nero e negli Stretti del Bosforo e dei Dardanelli».
Di tutto questo non c’è traccia, tuttavia, in Mussolini e i suoi generali che, contrariamente alle intenzioni dell’autore, non confuta ma anzi avvalora le tesi di Denis Mack Smith, Donald Watt, Giorgio Rochat che hanno considerato la politica estera del regime fascista come un gigantesco bluff attuato da un millantatore borioso e incompetente. Esistono, comunque, modi diversi di essere bluffeur e quello praticato dall’inquilino di Palazzo Venezia non ha nulla a che fare con i grossolani imbrogli di un mediatore romagnolo di bestiame come, invece, scrisse Gaetano Salvemini nel suo Mussolini diplomatico. Diremo, piuttosto, che, fedele allievo di Machiavelli, il figlio del fabbro di Predappio, riteneva indispensabile ispirare la sua azione, soprattutto sul piano dei nei rapporti internazionali, alle virtù del «lione» e della «golpe» e in definitiva più a quelle della seconda che della prima «bestia».
Anche Napoleone III, come ho sostenuto nella mia biografia (Salerno Editrice, 2010), utilizzo la stessa tattica, rinunciando a una politica di riarmo per privilegiare la modernizzazione dell’Esagono: bonifiche, messa a cultura di nuovi terreni, costruzione di un grande tracciato ferroviario, risanamento delle città, misure di assistenza pubblica. Anche Luigi Bonaparte reputò possibile restaurare la grandeur francese, giocando il ruolo di Arbiter Europae (come Mussolini con la conclusione del Patto a Quattro di non belligeranza siglato tra Italia, Francia, Inghilterra, Germania nel 1933, nella sfortunata Conferenza di Stresa del 1935 e poi con l’infausto accordo di Monaco nel 1938). Anche l’ultimo Imperatore dei Francesi, infine, riuscì a riportare i suoi successi militari (esattamente come tentò di fare Mussolini), non dispiegando un’indiscussa superiorità bellica, ma entrando a far parte di una coalizione più potente dell’avversario (Guerra di Crimea) o utilizzando una solida copertura diplomatica internazionale (campagna d’Italia del 1859).
La storia, tuttavia, presenta immancabilmente i suoi conti alla fine e i rapporti di forza effettuali costringono sempre «le vecchie volpi a finire in pellicceria». Così fu per Napoleone III nella pianura di Sedan, alla fine di agosto del 1870. Così sarebbe accaduto al Duce del Fascismo sulle montagne della Grecia, nelle sabbie della Libia, nelle steppe russe, sulle spiagge della Sicilia.
("E se non fosse stato il Duce a farci perdere la guerra?", 13 settembre 2011- © «il Giornale»)
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