Dire l’essenziale. Come raccontare la morte senza narcisismi e senza l’occhio guardone.
David Bidussa - 20 gennaio 2012
In prossimità del “Giorno della memoria” ho pensato che valesse la pena riflettere sul alcuni documenti. Non solo per le cose che raccontano, ma anche per il tipo di scrittura che presentano. Riproduco qui una lettera perché credo ch oggi quella civiltà della scrittura epistolare sia finita. Non voglio dire che nessuno scrive più lettere – e infatti ciascuno di noi scrive decine di e-mail ogni giorno . Scrivere una lettera, tuttavia, è un’altra cosa.
Alle volte ci sono dei documenti che dicono non solo di un’epoca o di un evento, ma soprattutto di uno stile quei documenti non sono significativi perché sono esaustivi, - ovvero perché dicono tutto ciò che noi vogliamo sapere – ma perché, prima ancora di rispondere alle nostre curiosità funzionano da segnalatori di uno stile.
In quello stile non c’è tanto una lezione di buone maniere, ma soprattutto la percezione e la consapevolezza di ciò che è essenziale dire, nella forma più delicata, senza nascondere niente., ma senza assumere un linguaggio burocratico, “freddo”
In un’epoca di ridondanza delle parole, quel tipo di documenti sono significativi proprio per la loro asciuttezza per la capacità che dimostrano di resistere al fascino della retorica.
E’ sempre difficile comunicare a qualcuno che non ci sono più speranze, che il tempo dell’attesa riguarda la vita di persone che si attendono invano.
L’Europa nel maggio 1945 fu un diffuso luogo di attese e di delusioni. Spesso non si trovavano le parole per dire ciò che sarebbe stato necessario dire. Oddone Molinari, operaio, ottico di Calalzo di Cadore, riuscì a trovarle. No so quanto gli costò trovarle, se gli vennero spontanee se quella scrittura era naturale per lui, forse leggendo altre sue lettere (chissà se altre volte si presentò dopo la necessità, più che l’opportunità, di farlo) si potrebbe capirlo.
Ma non è questo che conta.
Le lettere non dicono solo a chi le legge, di particolari che altrimenti non si sanno. Testimoniano della umanità o meno di chi scrive, della capacità di comunicare oltre la propria preparazione scolastica o la dotazione del proprio vocabolario. Come le cartoline dicono di un Paese che dovremmo conoscere, della quotidianità di un tempo, di una civiltà che non è solo e nemmeno prevalentemente nelle grandi opere, ma nel linguaggio dei molti che sono stati attraversati dalla storia e che spesso la subiscono che talvolta vi reagiscono e che provano a raccontarla, se domandati, senza narcisismi. Soprattutto senza quel gusto di scandalizzare che impera sulle pagine e sul web. Ogni riferimento ai fatti della Costa Concordia è decisamente voluto.
Calalzo, 7 novembre 1945
Egregia maestra,
Ho ricevuto la vostra lettera ed esaudisco la preghiera di darvi quelle informazioni che desiderate.
Appena giunti a Mathausen fu tolta a vostro fratello la veste sacerdotale e come noi è rimasto nudo tutto il periodo di quarantena durato circa un mese. Incominciò così i nostri patimenti e le eliminazioni dei più deboli; quando era una giornata di sole ci chiudevano in baracca, quando nevicava e infuriava la tormenta ci mandavano fuori e si godevano a vedere i nostri compagni cadere privi di forze e mezzi assiderati. Il vitto era in quel periodo una zuppa e un pane tedesco da dividersi in otto o in sei rare volte.
Nei primi giorni del mese di febbraio ci mandarono ai lavori a sette km. Dalla fortezza. Gusen due era la nostra meta. Si partì contenti creddendo che lavorando ci dessero qualcosa di più, invece fu una vera eliminazione, si facevano otto ore lavorative, ma questo orario durò una settimana, poi lo portarono subito a dodici, quindici e qualche volta diciotto ore continuate. Si mangiava una zuppa ogni 24 ore e un po’ di pane che poi anche questo ce lo levarono. A Gusen vostro fratello era tre baracche distante dalla mia, lavorava nella fabbriche situate nelle gallerie, costruivano carlinghe per gli aeroplani.
Andavo sempre in quella baracca, sinceramente era l’unico che aveva il morale sempre alto, ci dava parole di conforto e ci faceva sempre sperare. Ma vedevo che era molto malandato, la fame, le botte che erano tante, il poco dormire lo avevano buttato a terra.
Eccovi spiegato maestra il nostro tenore di vita vissuto in quell’inferno.
Un giorno mi sono recato nella sua baracca (non ricordo la data) domandai a quei pochi italiani ch erano là, ma nessuno mi rispose. Mi mostrarono solo gli occhiali in mille pezzi. Era morto nella notte dopo una gran battuta.
Sapevo di trovarlo fra i tanti che erano nel cortile in attesa di andare ai forni crematori , ma non volli vederlo, perché sarebbe stato troppo dolore.
So maestra che tutta questa storia è molto dolorosa, ma dovete essere forte e rassegnarvi a questo destino. Accettate così le più vive condoglianze da un amico di vostro fratello
Molinari Oddone
La lettera di Oddone Molinari a Carmela Sordo, sorella di Don Narciso Sordo.
La lettera è pubblicata da Mario Avagliano e Marco Palmieri nel volume Voci dal Lager. Diari e lettere di deportati politici 1943-1945, Einaudi, 2012, pp. 391-392.
Alle volte ci sono dei documenti che dicono non solo di un’epoca o di un evento, ma soprattutto di uno stile quei documenti non sono significativi perché sono esaustivi, - ovvero perché dicono tutto ciò che noi vogliamo sapere – ma perché, prima ancora di rispondere alle nostre curiosità funzionano da segnalatori di uno stile.
In quello stile non c’è tanto una lezione di buone maniere, ma soprattutto la percezione e la consapevolezza di ciò che è essenziale dire, nella forma più delicata, senza nascondere niente., ma senza assumere un linguaggio burocratico, “freddo”
In un’epoca di ridondanza delle parole, quel tipo di documenti sono significativi proprio per la loro asciuttezza per la capacità che dimostrano di resistere al fascino della retorica.
E’ sempre difficile comunicare a qualcuno che non ci sono più speranze, che il tempo dell’attesa riguarda la vita di persone che si attendono invano.
L’Europa nel maggio 1945 fu un diffuso luogo di attese e di delusioni. Spesso non si trovavano le parole per dire ciò che sarebbe stato necessario dire. Oddone Molinari, operaio, ottico di Calalzo di Cadore, riuscì a trovarle. No so quanto gli costò trovarle, se gli vennero spontanee se quella scrittura era naturale per lui, forse leggendo altre sue lettere (chissà se altre volte si presentò dopo la necessità, più che l’opportunità, di farlo) si potrebbe capirlo.
Ma non è questo che conta.
Le lettere non dicono solo a chi le legge, di particolari che altrimenti non si sanno. Testimoniano della umanità o meno di chi scrive, della capacità di comunicare oltre la propria preparazione scolastica o la dotazione del proprio vocabolario. Come le cartoline dicono di un Paese che dovremmo conoscere, della quotidianità di un tempo, di una civiltà che non è solo e nemmeno prevalentemente nelle grandi opere, ma nel linguaggio dei molti che sono stati attraversati dalla storia e che spesso la subiscono che talvolta vi reagiscono e che provano a raccontarla, se domandati, senza narcisismi. Soprattutto senza quel gusto di scandalizzare che impera sulle pagine e sul web. Ogni riferimento ai fatti della Costa Concordia è decisamente voluto.
Calalzo, 7 novembre 1945
Egregia maestra,
Ho ricevuto la vostra lettera ed esaudisco la preghiera di darvi quelle informazioni che desiderate.
Appena giunti a Mathausen fu tolta a vostro fratello la veste sacerdotale e come noi è rimasto nudo tutto il periodo di quarantena durato circa un mese. Incominciò così i nostri patimenti e le eliminazioni dei più deboli; quando era una giornata di sole ci chiudevano in baracca, quando nevicava e infuriava la tormenta ci mandavano fuori e si godevano a vedere i nostri compagni cadere privi di forze e mezzi assiderati. Il vitto era in quel periodo una zuppa e un pane tedesco da dividersi in otto o in sei rare volte.
Nei primi giorni del mese di febbraio ci mandarono ai lavori a sette km. Dalla fortezza. Gusen due era la nostra meta. Si partì contenti creddendo che lavorando ci dessero qualcosa di più, invece fu una vera eliminazione, si facevano otto ore lavorative, ma questo orario durò una settimana, poi lo portarono subito a dodici, quindici e qualche volta diciotto ore continuate. Si mangiava una zuppa ogni 24 ore e un po’ di pane che poi anche questo ce lo levarono. A Gusen vostro fratello era tre baracche distante dalla mia, lavorava nella fabbriche situate nelle gallerie, costruivano carlinghe per gli aeroplani.
Andavo sempre in quella baracca, sinceramente era l’unico che aveva il morale sempre alto, ci dava parole di conforto e ci faceva sempre sperare. Ma vedevo che era molto malandato, la fame, le botte che erano tante, il poco dormire lo avevano buttato a terra.
Eccovi spiegato maestra il nostro tenore di vita vissuto in quell’inferno.
Un giorno mi sono recato nella sua baracca (non ricordo la data) domandai a quei pochi italiani ch erano là, ma nessuno mi rispose. Mi mostrarono solo gli occhiali in mille pezzi. Era morto nella notte dopo una gran battuta.
Sapevo di trovarlo fra i tanti che erano nel cortile in attesa di andare ai forni crematori , ma non volli vederlo, perché sarebbe stato troppo dolore.
So maestra che tutta questa storia è molto dolorosa, ma dovete essere forte e rassegnarvi a questo destino. Accettate così le più vive condoglianze da un amico di vostro fratello
Molinari Oddone
La lettera di Oddone Molinari a Carmela Sordo, sorella di Don Narciso Sordo.
La lettera è pubblicata da Mario Avagliano e Marco Palmieri nel volume Voci dal Lager. Diari e lettere di deportati politici 1943-1945, Einaudi, 2012, pp. 391-392.
Leggi il resto: http://www.linkiesta.it/blogs/storia-minima/dire-l-essenziale-come-raccontare-la-morte-senza-narcisismi-e-senza-l-occhio-gua#ixzz1kDXiulfT
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