venerdì 2 marzo 2012

FILO SPINATO. "I primi due volumi della collana contributo importante a conoscenza condizioni degli IMI nei Lager"


di  Anna Maria Casavola

I due libri che si presentano stasera - "Ho scelto il lager" e “Gli zoccoli di Steinbruck”  - nell'ambito della collana storica "Filo Spinato" della Marlin, sono a mio avviso un contributo importante alla conoscenza delle condizioni reali di vita  o meglio di sopravvivenza degli internati italiani nei Lager nazisti, in particolare per quanto riguarda i militari di truppa, quelli che in molti casi diventarono, come giustamente titola il libro di Ricciotti Lazzaro, "gli schiavi di Hitler". 

Infatti noi conosciamo poco la realtà del lavoro coatto perché la maggior parte della diaristica e memorialistica  è stata scritta da ufficiali, i quali in gran parte poterono sfuggire al lavoro coatto, appellandosi alla Convenzione di Ginevra.  I militari di truppa invece non poterono farlo perché anche la convenzione di Ginevra li obbligava a lavorare per la potenza detentrice. La resistenza della truppa al lavoro potè essere solo fatta attraverso rischiosissime azioni di sabotaggio e queste, ci risulta, non mancarono.
Il libro di Pompilio Trinchieri “Gli zoccoli di Steinbruck” (Marlin) si presenta come una serie di appunti presi prima della prigionia, nel corso di un viaggio in treno sul fronte russo per portare rifornimenti all’Armata Italiana, e poi in prigionia in Germania, e quindi più tardi rielaborati e trasformati in libro nel 1985 ma esclusivamente per figli e nipoti, per lasciare loro un ricordo, perché sapessero quante ne aveva passate il loro padre e nonno, senza nessuna ambizione memorialistica e tanto meno letteraria.  Sarà la figlia Rita, quando già il padre è morto da alcuni mesi,  a consegnarlo ai nostri due curatori, convinta che quelle pagine conservate gelosamente per oltre 60 anni potevano essere preziose anche per degli estranei. La figlia non ha voluto apportare nessuna correzione al testo originale, ma questo, anche se con qualche errore di lingua, soprattutto per quanto riguarda nomi tedeschi,  rivela nell’autore  il possesso di una disposizione nativa per la scrittura e una capacità di osservazione e di descrizione che riescono a decantare il materiale incandescente dei ricordi.
L’altro testo di Aldo Lucchini “Ho scelto il Lager" non è stato scritto in prigionia , ma di getto al ritorno dalla Germania nel 1945, 40 pagine dattiloscritte, veloci, drammatiche, stilisticamente perfette, per fermare la bruciante esperienza vissuta  e per chiarire, forse solo a se stesso, i motivi di quella singolare prigionia in un certo senso scelta. Pagine come tante altre, poi, chiuse in un cassetto per dimenticare.
Nello scritto, infatti, tra le righe, si avverte la delusione cocente del ritorno, quando questi nostri connazionali  si sentirono guardati con sospetto, non ascoltati e non riconosciuti per quello che erano stati,  dei resistenti, .ma solo commiserati per le condizioni fisiche precarie.  E ce n’è voluto perché la resistenza non armata degli internati militari italiani fosse ricompressa nel panorama generale della Resistenza italiana e lo Stato riconoscesse loro il titolo di volontari della libertà parificandoli ai partigiani  (legge dello Stato  I° dicembre1977 n. 907) E ce n’è voluto perchè gli storici accademici li scoprissero!
I nostri autori appartengono alla truppa, in quanto il primo è un bersagliere, il secondo un sergente maggiore. I loro libri sono  uno spaccato dell’universo concentrazionario nel suo aspetto più fosco e brutale ( non per tutti, grazie a Dio l’esperienza del Lager è stata così, fortunati per esempio, quelli addetti alle attività agricole e affidati a famiglie) in quanto vi vediamo in atto l’uso sistematico della violenza fisica contro i prigionieri. Questa era una prassi normale nei confronti dei soldati, mentre per gli ufficiali  le percosse erano più rare,  salvo che nei campi di punizione. La brutalità delle punizioni fisiche variava secondo i campi il lavoro, le situazioni, la qualità umana dei sorveglianti, ma faceva parte del sistema di governo tedesco. E infatti tutta la memoria dei militari di truppa la registra come normale e quotidiana. Per i soldati molto spesso il luogo di lavoro si presentava come un inferno dantesco, messi ai lavori forzati  e sempre sotto la sferza e le nerbate  e i comandi urlati dei sorveglianti o meglio degli aguzzini, . lavori sono pesanti, estenuanti nelle industrie belliche, negli altiforni, nelle miniere oppure consistono nel rimuovere macerie, nel pulire latrine e pozzi neri, nel seppellire cadaveri o all’aperto per opere di manovale,  in tutte le stagioni, senza mai fermarsi, anche se si ha la febbre, se le gambe vacillano,  se si sta crollando per la stanchezza  e per la fame.
Questa è l’ordinaria amministrazione, poi ci sono gli episodi di crudeltà e sadismo. Nel libro di Trinchieri ad esempio la punizione del povero francese, che aveva tentato la fuga, ucciso a bastonate alla presenza dei compagni, costretti ad assistere passivi con le braccia alzate. "Per dare un esempio – riferisce Trinchieri -. Nello Stato germanico non si fugge, nessuno fugge guai a chi fugge”. Un altro episodio che sottolinea l’irrazionalità di queste punizioni riguarda il nostro autore, colpito da 35  nerbate al sedere, perché sorpreso ad indossare sotto la tuta del lavoro la sua  coperta, quell’unica coperta zeppa di pidocchi data in dotazione per la notte.
Ma i campi di punizione sono molto più terribili dei campi di concentramento, la stessa differenza che ci può essere tra la propria casa ed un campo di concentramento e il Trinchieri ci dice che se le condanne durano a lungo nessuno ne esce vivo. Se dura 4 settimane, quasi tutti ce la fanno a sopravvivere, se dura 8 ce la fa solo il 50 per cento, se dura 12 settimane la pena non viene superata da nessuno. La condanna di Trinchieri allo Straflager di Steinbruck fu di 8 settimane.
Spogliati delle loro divise e ricoperti di cenci, ammanettati, rinchiusi in celle piccolissime, in 7 persone in uno spazio di m. 2 per 1,50, tenuti a digiuno per giorni e poi costretti a mangiare in piatti sporchi, neri, senza poter bere se non allo scarico del gabinetto, questo l’ingresso nel campo. Un particolare importante, per tutto il periodo. l’abrutimento psicofisico era realizzato negando ai prigionieri ogni forma di pulizia, conseguentemente gli insetti erano sempre più nocivi, gli stenti aumentavano e si diventava profondamente insensibili alle sofferenze degli altri compagni di prigionia. Il tormento maggiore era dato dagli zoccoli di legno come quelli olandesi che, portati sempre al piede per spostamenti veloci,  aprivano sul collo del piede piaghe ulcerose e a questa sofferenza  si univa quella delle piaghe aperte sul corpo dalle percosse continue. Quando alla fine Trinchieri e il suo compagno ritorneranno al loro campo di Viernau in Turingia e i commilitoni li abbracciano, felici di rivederli, sui volti si disegna una smorfia di dolore per il  corpo che è tutto una piaga.
L’ANEI può congratularsi di aver tenuto a battesimo questa iniziativa di ricerca sugli internati, perché, se non erro, è stato l’incontro di alcuni anni fa, di Marco Palmieri con l’archivio ANEI nella persona di Maria Trionfi a spingerlo per questa strada, che gli ha fatto maturare, insieme con Mario Avagliano, quell’opera ormai pietra miliare “Gli internati militari italiani" della casa editrice Einaudi, costruita su materiale diaristico ed epistolare. Io stessa ricordo di avergli procurato un testo preziosissimo, la lettera di  Giuseppe De Toni, “il manifesto del no" degli ufficiali italiani nei Lager nazisti.
Leggendo queste testimonianze non si può non indignarsi se si pensa all’esclusione  subita dai militari italiani per il risarcimento previsto per il lavoro coatto dalla legge tedesca per la costituzione della fondazione “Memoria, responsabilità.futuro”. Esclusione dichiarata in base a delle sofisticatissime argomentazioni del giurista tedesco dr. Christian Tomuschat. Questi  ha contestato il fatto che i nostri militari siano stati spogliati dello status di prigionieri di guerra e ha affermato che sono solo stati ridefiniti, rinominati come internati da Hitler, e quindi per loro era legittima la prigionia di guerra, e anche il lavoro coatto previsto per la truppa dalla Convenzione del 1929. Quanto alle violazioni sì queste ci sono state, ma in definitiva si tratterebbe di prigionieri di guerra un po’ maltrattati! Questa sentenza di esclusione del 2001 ha profondamente amareggiato e indignato ma non tanto per i risvolti economici, che sarebbero stati minimi, ma per il non riconoscimento della verità storica.
Ma tornando al Trinchieri perché il campo di punizione? Il protagonista è colto di sorpresa dalla punizione, perchè aveva ricoperto il ruolo di responsabile ed era benvoluto anche dai tedeschi.
Ma se lo spiega perché evidentemente scoperto nell’azione che aveva svolto presso i compagni di dissuasione dall’opzione. E qui è necessario trattare di quella resistenza   messa in atto da subito,  da soldati e ufficiali, individualmente, alle offerte allettatrici dei tedeschi che proponevano cibo buono, vestiario,denaro e anche ritorno in Italia  a  chi fosse passato nell’esercito fascista o nelle loro formazioni militari. Ma Trinchieri ci dice che nel suo campo nessuno accettò e della decisione  “nessuno mai di noi si pentì”.
Ma non era facile resistere a queste sirene perchè la fame nei campi era mostruosa e finiva   anche con il far emergere gli istinti più bassi.
C’è un episodio nel libro di Trinchieri che può darne l’idea, quando  ci parla di quel pane piccolo ma pesantissimo che doveva essere diviso con grande precisione tra 7 persone e si usava un metro per darne una fetta di 143 grammi a testa, ma un giorno ne cadde sul tavolo una piccolissima fetta in più e Rusconi, il marinaio milanese, fu lesto a prenderla e ad ingoiarla. Ne nacque una lite e Saffioti, il calabrese, con in mano il coltello affilatissimo, nella zuffa, lo conficcò nel cuore  del compagno. La pena che i tedeschi alla fine dettero al Saffioti per l’uccisione del compagno fu esigua, 18 mesi di carcere, "ma 18 mesi - dissero i tedeschi - era anche troppo  perchè si trattava di un soldato di Badoglio  e per di più un marinaio” (la marina italiana era odiatissima perché era passata subito, per ordine di Badoglio, agli Alleati). Questi due libri, scritti da militari di truppa,  che hanno al centro del loro racconto  il tema dell’opzione, contraddicono la tesi che ogni tanto rispunta (prof Brunello Mantelli, prof Luciano Zani),  che l’opzione sarebbe stata riservata solo agli ufficiali, in quanto ai tedeschi importava sfruttare gli internati come forza lavoro piuttosto che vedere ricostruito l’esercito fascista.  Dice a questo proposito il sergente Mario Rigoni Stern che "è stato proprio quel NO ad accomunare soldati e ufficiali”. Una cosa  ci rese uguali a quelli che erano stati i nostri  comandanti di plotone o di compagnia, quel no che dicemmo quando con lusinghe e minacce vennero a chiederci di riprendere le armi per il grande Reich e poi per Mussolini E grazie, amici di sventura che in quella circostanza non ci avete tradito” e aggiunge "quel NO stabiliva per chi lo pronunciava il senso religioso di una scelta politica”.
Questo NO certo, comportava un conflitto drammatico,  prima di tutto con se stessi. Nel libro di Lucchini  é con grande efficacia rappresentato, proiettato, nel delirio dell’amico Vito, ritrovato in Lager. L’aveva lasciato in Grecia e non sperava più di rivederlo. Vito che ha trent’anni ma ne dimostra cinquanta,  è un uomo generoso che non ha voluto sfruttare neppure la sua conoscenza delle lingue per non avere a che fare con i tedeschi, é  provato, sfinito dal lavoro e dall’ambiente ostile che sente intorno , anche da parte degli italiani , principalmente il medico italiano, che esonera dal lavoro solo chi gli porta sigarette o gli amici cucinieri. Nel delirio della febbre sembra voler rinnegare la scelta fatta. “Basta non resisto più , vado al comando e mi metto in nota... non ne posso più. Ti dico. Di noi si sono dimenticati tutti... Ora ci tocca morire ma non cedere. Ma per chi mi chiedo, per chi? Per chi questa orrenda vita se nessuno ci è amico... se non sappiamo neppure come saremo accolti domani al nostro ritorno in Patria E che ti credi che qualcuno apprezzerà i nostri sacrifici... Vado volontario. Non resisto più. Combatterei contro i santi pur di togliermi di dosso questi pidocchi maledetti , di non sentire più questi urli dei cani che ci bastonano, di poter tornare un uomo, e mangiare quando si ha fame, bere quando si ha sete, riposare quando la febbree brucia le vene...(...).
Ma al risveglio ritorna la coscienza e la volontà di continuare a resistere: “Non ricordo ciò che posso averti detto. Questa lurida guerra finirà un giorno. E non potrei sopportare lo sguardo franco del mio piccolo Gianni se non riuscissi a sopportare questa prova, Aderire? No, non voglio Mangiatelo voi, il vostro pane, cani maledetti..."

*Intervento di Anna Maria Casavola, Direttore  di “Noi dei Lager”, Bollettino dell’associazione nazionale ex internati nei Lager nazisti, alla presentazione della collana storica "Filo Spinato", Roma 29 febbraio 2012


1 commento:

  1. Buongiorno, sono una professoressa di Lettere che vive e insegna a San Vito Romano. Facendo ricerche sulla memoria del mio territorio, ho scoperto la figura di Pompilio, che a San Vito è nato. Grazie per aver contribuito a raccontarla. Sto cercando di mettermi in contatto con la figlia, per approfondire questa storia. Ne parlerò ai miei alunni!

    www.arringo.wordpress.com

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