mercoledì 7 marzo 2012

Filo Spinato: le storie individuali di Lucchini e di Trinchieri danno il senso del dramma collettivo degli IMI in modo più vivido e diretto dello storico

di Elena Aga-Rossi

Sono molto lieta di presentare la nuova collana storica “Filo Spinato” delle edizioni Marlin, dedicata alle memorie di guerra e di prigionia, che si inaugura con la pubblicazioni di due libri di memorie  di ex internati militari IMI, "Ho scelto il lager" e “Gli zoccoli di Steinbruck”. Due dei 650.000 che furono presi prigionieri nei Balcani, Aldo Lucchini e Pompilio Trinchieri. Entrambi si trovavano in Grecia al momento dell'armistizio, anche se in posti diversi ed entrambi furono deportati nei lager tedeschi
Prima di parlare di questi due libri,  vorrei fare un breve quadro delle vicende che portarono 430.000 uomini a condividere la terribile odissea della prigionia.

La ricostruzione storica della seconda guerra mondiale è ancora piene di omissioni e di lacune. Gli studiosi si sono concentrati sugli aspetti positivi, la guerra di liberazione e la resistenza, e hanno trascurato invece altri aspetti, in particolare gli anni della guerra e il periodo 1943-45.
Soprattutto gli avvenimenti militari sui vari fronti sono stati poco indagati; in  particolare sia la fase della guerra e dell'occupazione della Grecia e poi della Jugoslavia, l'occupazione contrassegnata da feroci repressioni della  popolazione con l'affermarsi della resistenza e delle guerre civili e poi, dopo l'8 settembre, le vicende dei militari abbandonati nei Balcani e in Grecia.
Era la guerra del fascismo che si voleva dimenticare ed è stata rimossa dalla memoria collettiva, una parte della nostra storia totalmente ignorata nei libri di scuola, rimossa, eppure tutta una generazione fu coinvolta in quei cinque anni di guerra, abbiamo il paradosso di una rimozione nella memoria pubblica e nella storiografia, ma non nella memoria privata delle famiglie. I Balcani sono stati il teatro di guerra in cui erano  impegnati maggior numero di militari, quasi ogni famiglia italiana ha avuto un parente che ha combattuto nei Balcani, e che poi che è stato prigioniero in Germania o nei territori occupati, o è sopravissuto nascosto o combattendo con i partigiani.

Esperienze spesso terribili,  come ha scritto un altro militare nel libro di Avagliano e Palmieri sugli IMI: “meglio la Russia che i Balcani”.
L'8 settembre è un punto di svolta fondamentale nella storia d'Italia con la scelta di staccarsi dalla Germania iniziando il processo che porterà alla democrazia sul piano interno e alla sconfitta dell'Asse sul piano internazionale, ma il modo in cui avviene l'armistizio lo rende un momento tragico per le sue conseguenze per buona parte degli italiani oltre che un'occasione mancata, con l’ ambigua dichiarazione alla radio di Badoglio di cessare l'ostilità contro gli anglo-americani ma di reagire "ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza" , la mancanza di ordini alle varie divisioni, la precipitosa fuga del re, la resa di quasi tutte le forze armate, l'occupazione di buona parte dell'Italia da parte tedesca.
L'annuncio dell'armistizio, firmato a Cassibile il 3 settembre, doveva essere  preceduto dalle preparazione delle nostre forze armate, il governo si era impegnato a tenere il controllo degli aeroporti.
Invece le forze armate sono state avvertite solo all'ultimo momento con ordini contradditori. Nei Balcani la proposta di Ambrosio di rimpatriare parte delle truppe a metà agosto è stata respinta da Badoglio.
In poche ore i nemici di ieri sono divenuti amici, gli alleati i più feroci nemici, animati da spirito di vendetta per il tradimento dell'Italia.
Gli italiani sono stati colti di sorpresa, ricevendo ordini contradditori come "reagire, ma non spargere sangue”, nel tentativo del governo di mantenere una specie di neutralità, con i piedi in due staffe. Con gravissime responsabilità a tutti i livelli, a partire dalla monarchia, il governo, gli alti comandi.
I tedeschi si sono adeguati subito, anche con una efficace propaganda che fa considerare un   tradimento la resa dell'Italia.
Nelle ore cruciali seguite all'annuncio i tedeschi seguono precise direttive, occupano le caserme, le vie di comunicazioni, gli aeroporti, e pongono l'alternativa: combattere con loro, contro di loro o arrendersi, soluzione che viene scelta dalla maggioranza dei comandi, anche per l’inganno perpetrato dai tedeschi.
Nei Balcani  il problema della scelta, di fronte al repentino capovolgimento di fronte, si pone in modo molto più drammatico perché per i più non è possibile tornare a casa, da qui l'elevato numero di comandanti che decidono di arrendersi, mentre sono una minoranza quelli che passano dalla parte tedesca e quelli che decidono di reagire con esiti infausti.
Per molti anni c’è stata la rimozione del tema degli internati. Il bellissimo libro di Natta “L’altra resistenza” venne rifiutato da Editori Riuniti nel ‘54 (fu poi pubblicato nel ‘96  da Einaudi), anche la memorialistica nel dopoguerra è stata scarsa ed ha avuto uno sviluppo solo negli anni Novanta grazie alle iniziative delle associazioni, come l’ANEI. Paradossalmente è in Germania che è nata una importante storiografia, con il libro fondamentale di Schreiber del 1992, seguito a molta distanza dalla Hammermann del 2004. In Italia il primo inquadramento storico e la prima raccolta organica di lettere e diari è di Avagliano e Palmieri nel 2009. Da allora molte memorie e diari sono stati pubblicati negli ultimi anni dai protagonisti ancora sopravissuti o dai loro familiari.
Molti hanno ripensato la scelta del silenzio, è sorta l’esigenza di lasciare una testimonianza delle loro sofferenze, sono usciti dai cassetti manoscritti dimenticati.
Se prima dimenticare era l’atteggiamento prevalente negli internati, ora si è fatta strada l’esigenza opposta, scrivere o pubblicare le proprie memorie o i propri diari "per non dimenticare".

Nei due libri che presentiamo oggi vi sono alcuni elementi comuni:
1. i lunghi viaggi in condizioni inumane, chiusi in carri bestiame o stipati sulle navi spesso senza cibo  né acqua per giorni e giorni. L'affondamento delle navi spinse i militari italiani nelle isole spesso a collaborare;
2. la  fame che accompagna tutta l’esperienza degli internati;
3. l’inganno dei tedeschi, con la  promessa di rimpatrio che facilita la resa di migliaia di militari stanchi della guerra e che vogliono tornare a casa;
4. la violenza e il terrore inutile e gratuito, gli insulti con l’epiteto di “traditori”, la crudeltà da parte tedesca, le bastonate anche senza ragione; 
5. la mancanza di comunicazione con le famiglie e l’isolamento.
Le esperienze di internamento furono molto diverse tra loro, da quelle accettabili alle più estreme, dove i morti per decadimento, denutrizione e violenze erano molto numerosi.
Ma ogni vicenda è unica  e le storie individuali danno il senso di questo dramma collettivo in modo più vivido e diretto dello storico, che necessariamente fa un discorso generico.

Pompilio Trinchieri ha fatto tutti i 5 anni di guerra.
Il libro è diviso in due parti. La prima riguarda l'estate del ’42 ed è la cronaca di un viaggio per rifornire l'ARMIR sul fronte russo, in cui può osservare le modalità di guerra  e il razzismo nazista.
Questa cronaca riferisce la tragedia degli ebrei, molte donne, laceri e denutriti che lavorano ai lati dei binari, e narra episodi raccapriccianti, come quello del soldato tedesco che lancia il bambino di pochi mesi e gli spara addosso.
Fin dalla fotografia della pagine di copertina Trinchieri  si mostra  un atteggiamento deciso, che non si lascia abbattere, che non ha paura di esporsi. Ad esempio reagisce alle proposte "allettanti" di passare alla RSI dicendo   anche a nome dei compagni  che volevano aspettare la fine della guerra in prigionia e aggiunge "della decisione nessuno di noi mai si pentì".

Aldo Lucchini è diverso da Trinchieri. Colpisce il tono dimesso con  cui scrive di sofferenze patite, di esperienze brucianti, come l’episodio terribile ma raccontato in poche frasi dell'italiano che rifiuta di dargli un pezzetto del  suo  enorme filone di pane in cambio dell'unica cosa rimastagli, una matita automatica.  Ma anche quello del polacco che invece  glielo offre spontaneamente, evidentemente colpito dal suo aspetto. Nelle sue memorie si coglie il peso della solitudine nella prigionia e quindi il ruolo fondamentale della solidarietà e della amicizia. in particolare con  Vito, o Vittorio, che quando si presenta dice "io sono il 37825", con cui divide i mozziconi di sigarette, che per stare con lui si fa assegnare a un settore dove il lavoro era più gravoso, che rifiuta di utilizzare la sua conoscenza del tedesco che gli avrebbe permesso di avere condizioni molto migliori per non avere a che fare con loro.
Emerge anche una questione fondamentale: Vito arriva a un tale avvilimento e esaurimento mentale e fisico  (di noi si sono dimenticati tutti), da pensare per un momento di andare a dichiarare l'adesione alla RSI. Ma poi il mattino dopo dice che non potrebbe guardare suo figlio in faccia se non fosse riuscito a superare quella prova e a resistere.

(Roma, 29 febbraio 2012)

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