La prima riflessione che ci è sovvenuta nel leggere questa pregevole biografia (Mario Avagliano, Il partigiano Montezemolo, Milano, Dalai, 2012) dedicata a Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo è il lasso temporale trascorso dall’esecuzione per mano nazista dell’alto ufficiale del regio esercito e l’uscita del volume: sessantotto anni. In sostanza, per conoscere nel dettaglio la vita di uno dei protagonisti della resistenza militare nel corso dell’occupazione tedesca c’è voluto lo stesso tempo che separa il 1848 dalla prima guerra mondiale; sarebbe (più o meno) come se di Goffredo Mameli o Luciano Manara si fosse timidamente iniziato a sapere qualcosa grazie agli studi di Benedetto Croce sulla storia d’Italia. Ci troviamo insomma di fronte a uno dei numerosi esempi, forse il più grave, del silenzio imbarazzato e imbarazzante che regna quasi ovunque negli studi resistenziali sul ruolo (spesso determinante) che ebbero i militari delle forze armate regolari nella guerra di liberazione.
Bene fa quindi Mario Avagliano a soffermarsi sull’inaccettabile ritardo con cui si arriva a indagare su questa e altre figure nobili di ufficiali del regio esercito, e a riportare in virgolettato gli accenni (spesso superficiali e sprezzanti) con cui alcuni tra i numi della storiografia contemporanea hanno gratificato l’esperienza umana e civile di un giovane uomo - non ancora quarantatreenne quando gli fu stroncata la vita - che prima dell’armistizio era stato uno dei migliori ufficiali di stato maggiore dell’esercito, tanto da essere incaricato “sul campo” dal governo regio di Brindisi di coordinare l’attività del fronte militare clandestino nella Roma occupata dai nazisti.
L’azione di Montezemolo e dei suoi collaboratori nacque e si sviluppò in condizioni improbe, nel costante timore di delazioni da parte di ex colleghi passati alla repubblica di Mussolini (indecoroso il numero di ufficiali aderenti alla RSI specie dopo il discorso di Rodolfo Graziani al teatro Adriano nell’ottobre 1943) o di imprudenze dovute alla scarsa conoscenza delle tecniche di lotta clandestina. Eppure per quattro mesi il colonnello piemontese fu il referente di fiducia non solo per il governo di Pietro Badoglio, ma anche per i protagonisti del comitato di liberazione nazionale.
Formidabile nella raccolta informazioni, decisivo in numerose azioni di sabotaggio ai convogli nazisti, indispensabile per tenere i contatti non sempre agevoli fra “politici” e “militari”, Montezemolo emerge da questo studio come una figura centrale della resistenza nella capitale. L’arresto, le torture e la fine tragica alle Cave Ardeatine avrebbero dovuto già da tempo sollecitare gli studiosi di ogni ispirazione a sollevare lo sguardo verso chi, monarchico, liberale, militare a tutto tondo, sacrificò famiglia, affetti, carriera e la stessa vita per tener fede a un giuramento e per opporsi alla barbarie delle rune e della svastica. Così purtroppo non è stato. E per questo occorre essere grati all’autore, che è riuscito a portare nel XXI secolo un dibattito arenato da troppo tempo sulle spiagge della retorica resistenziale.
(Orientamenti storici, 29 aprile 2012)
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