di Mario Avagliano
«In Italia, in ogni
posto dove arrivavamo, il tenente ci diceva sempre: “Per prima cosa
facciamone fuori qualcuno!”. Diceva: “Allora, fatene fuori venti,
così avremo un po’ di calma, che non si facciano strane idee!”.
(Risate.) Tutti sulla piazza del mercato, poi arrivava uno con il mitra, rrr-rum,
e tutti a terra. Così iniziava. Poi diceva: “Benissimo! Porci!”.
Aveva una tale rabbia nei confronti degli italiani, da non crederci». A parlare è tale Sommer, caporale
scelto della Wehrmacht. È una delle migliaia di conversazioni rubate dai
servizi inglesi e americani grazie alle cimici nascoste durante la seconda
guerra mondiale all’interno dei campi di prigionia alleati, registrate su
vinile e trascritte in oltre 150 mila pagine di verbali, conservati ora negli
archivi di stato di Londra e Washington.
Un campione di questa eccezionale
documentazione è riprodotto nel saggio “Soldaten. Le intercettazioni dei
militari tedeschi prigionieri degli Alleati”, in uscita nei prossimi
giorni per i tipi della Garzanti (pp. 464, euro 24,50), curato in tandem dallo
storico Sönke Neitzel e dallo psicologo Harald Welzer e già pubblicato in
Germania. Per la prima volta due studiosi hanno potuto esaminare cosa
pensavano realmente i soldati tedeschi della guerra. Un lavoro di ricerca
straordinario.
Tra il 1939 e il 1945 ben diciotto
milioni di tedeschi vengono chiamati alle armi nella Wehrmacht. L’interesse
di questo saggio è che si tratta di gente comune, non di nazisti convinti
arruolatisi nelle SS. Ma il ritratto che emerge da quelle conversazioni è
ugualmente agghiacciante. Testimonia l’adesione spontanea alla guerra
totale hitleriana di gran parte del popolo tedesco, che rifiutò fino quasi alla
fine di credere a una sconfitta del Reich. E dimostra la fondatezza delle tesi
di uno storico come Daniel Goldhagen sui “volenterosi carnefici”
dell’esercito germanico, non meno violenti dei poliziotti delle SS.
Demolendo definitivamente il mito di una Wehrmacht “pulita” e fatta
da uomini d’onore, che non partecipò alle stragi di civili e non sapeva
nulla della Shoah.
Leggendo i colloqui
degli ufficiali e dei soldati tedeschi, che ignorano di essere ascoltati e
quindi parlano senza inibizioni, non si può fare a meno di restare turbati,
anche a quasi settant’anni di distanza. La brutalità, le torture, gli omicidi,
la violenza, come scrivono i due autori, “sono il pane quotidiano di chi
parla e di chi ascolta, non sono nulla di eccezionale. I soldati ne parlano per
ore, così come discorrono, per esempio, di arerei, bombe, apparecchiature
radar, città, paesaggi o donne”. Parafrasando Hannah Arendt, si potrebbe dire «la normalità
del male».
Nei racconti di guerra (di tutti gli
eserciti), le storie di fucilazioni, stupri e saccheggi appartengono alla
quotidianità: quando se ne parla, non capita quasi mai che si arrivi a un
confronto, che ci siano obiezioni di carattere morale o litigi. Ecco cosa dice
Heinrich Skrzipek, timoniere dell’U-187: «Lo storpio va soppresso senza
dolore. Così si fa. Loro non lo sanno, e comunque non hanno nulla nella vita.
Basta però non essere teneri! Non siamo mica femminucce». Anzi, in molte
narrazioni gli interlocutori fanno a gara a vantarsi di quella o
quell’altra azione brutale.
La violenza sulle donne, ad esempio, è
considerata un fatto normale. Parlando con un maresciallo della Luftwaffe degli
aspetti turistici della campagna in Russia, un soldato infila un aneddoto
terrificante: «belle da morire quelle ragazze. Ci passavamo accanto, le
tiravamo dentro il camion, ce le sbattevamo e poi le buttavamo fuori di nuovo.
Dovevi vedere come bestemmiavano!». E tra le risate del commilitone, continua a
descrivere altri particolari del viaggio.
Anche lo sterminio degli ebrei non è
un affare esclusivo delle SS. Dalle conversazioni emerge che molti soldati sono
informati nel dettaglio di questi crimini e diverse unità della Wehrmacht
partecipano, come esecutori, spettatori, complici, forse ausiliarie, alle
fucilazioni di massa di ebrei nelle zone di occupazione. Peraltro la visione
biologistica del mondo tipica del nazismo non è rivolta solo agli ebrei e
colpisce sia i nemici («Non riesco a considerare i russi delle persone») che
gli alleati giapponesi («Le scimmie gialle non sono essere umani, sono ancora
bestie») e italiani («sono una razza stupida»).
A parte rare eccezioni (come avviene
per i paracadutisti della Folgore), anche i soldati italiani vengono
considerati in maniera assai negativa. «Una tragedia», «quegli italiani di
merda (…) non fanno nulla», «non hanno nessuna voglia di guerreggiare»,
«non hanno alcuna fiducia in sé stessi», «se la fanno addosso». Pollice verso
per gli ungheresi, considerati uno «schifo», e per gli americani, «vigliacchi e
meschini», «rammolliti».
Certo, anche la Wehrmacht non è un
blocco monolitico di opinioni e di pensiero. La maggior parte dei tedeschi si
dichiara antisemita, ma c’è chi prova indignazione quando gli ebrei
vengono fucilati. Alcuni sono antinazisti convinti, ma appoggiano apertamente
la politica antiebraica di Hitler. C’è anche chi critica gli eccessi di
violenza della Wehrmacht nei confronti dei civili, come il sergente maggiore
Barth: «a Barletta hanno chiamato a raccolta la popolazione, dicendo che
avrebbero distribuito i viveri, e invece hanno tirato fuori i mitra e hanno
sparato, cose del genere hanno fatto. Poi, per strada, strappavano orologi e
anelli, come i banditi». Non mancano prese di distanza radicali. Il
sottufficiale Czerwenka arriva a dire: «Spesso mi sono vergognato di portare
l’uniforme tedesca». Ma sono comunque eccezioni rispetto alla massa, che
segue alla lettera, e non di rado ostentando un sottile piacere, i «protocolli
del combattere, dell’uccidere e del morire».
(Il Mattino, 4 maggio 2012)
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