di Mario Avagliano
A
fine Ottocento e a inizio Novecento il termine Wop veniva utilizzato
nei paesi anglosassoni per designare in senso spregiativo gli
“italiani”. La parola deriva dal napoletano “guappo” ed è traducibile
con il nostro “terrone”. Tuttavia Wops è anche l’anagramma di P.o.Ws.,
forma abbreviata di Prisoners of War, usata nella documentazione
britannica durante il secondo conflitto mondiale per indicare i
prigionieri di guerra.
È su questo gioco di parole che punta il titolo del saggio di Isabella Insolvibile, Wops. I prigionieri italiani in Gran Bretagna (1941-1946),
pubblicato da Edizioni Scientifiche Italiane (pp. 358, euro 38), che
racconta con dovizia di particolari la storia misconosciuta dei
prigionieri di guerra italiani in Gran Bretagna, che ospitò in quegli
anni sul proprio suolo il più cospicuo numero di nostri soldati
catturati dagli Alleati. Tra il 1941 e il 1944 almeno 155.000 italiani
furono trasferiti dagli inglesi nella madrepatria britannica, prelevati
direttamente dai fronti africani – da El Alamein, per esempio – o dai
territori in cui erano stati detenuti in un primo momento, come l’India,
il Kenya, il Sudafrica.
Il
motivo che spinse gli inglesi a “importare” gli italiani in Gran
Bretagna fu prettamente economico: come tutti le nazioni belligeranti,
la maggior parte degli uomini abili erano impiegati sotto le armi e, di
conseguenza, le fabbriche, le officine e i campi erano sforniti di
manodopera. Gli italiani, ritenuti - diversamente dai tedeschi - non
pericolosi per la sicurezza nazionale e considerati buona manovalanza,
divennero fin dal 1941 una presenza costante nelle campagne britanniche.
Alloggiati in campi ben attrezzati, tutelati dalle convenzioni
internazionali relative ai prigionieri di guerra, assistiti dalla Croce
Rossa Internazionale, nutriti con razioni abbondanti, in Gran Bretagna i
nostri connazionali vissero quella che può forse essere considerata, da
un punto di vista
materiale, l’esperienza di prigionia meno tragica tra quelle patite
durante il secondo conflitto mondiale.
Tuttavia,
come ha scritto Giorgio Rochat, la qualità della prigionia non si può
analizzare solo sulla scorta delle “calorie della razione quotidiana”.
La condizione psicologica degli italiani fu caratterizzata da una
costante malinconia e da un crescente malcontento, causati dalle
condizioni di una prigionia che fu lunghissima da un punto di vista
temporale, immutata dal punto di vista dello status giuridico –
nonostante il variare della posizione dell’Italia nei confronti degli
Alleati –, prorogata a ben dopo la fine della guerra per le esigenze
economiche degli inglesi, e ingiustificata, se non da un punto di vista
meramente disciplinare, dopo l’armistizio del settembre 1943 e
addirittura la conclusione delle ostilità.
La
ricerca di Isabella Insolvibile, che ha utilizzato un’amplissima mole
documentaria sia italiana sia britannica – circa 16.000 carte d’archivio
– ricostruisce le vicende di questi nostri connazionali, prigionieri al
momento della cattura e poi lavoratori a beneficio del nemico, che
vissero da lontano i grandi mutamenti della storia del proprio paese e
che dopo l’armistizio e la dichiarazione di cobelligeranza dell’Italia
con gli anglo-americani, dovettero scegliere se divenire o meno
cooperatori, accettando di essere impiegati in lavori connessi allo
sforzo bellico, proibiti ai prigionieri tout court.
Una storia di prigionia ma anche di discriminazione. I P.o.Ws. italiani, anche quando giunse la pace, rimasero immutabilmente dei Wops,
gente considerata bellicamente, politicamente, culturalmente e anche
razzialmente inferiore, disprezzata dalla popolazione britannica,
abbandonata al proprio destino dalle autorità nostrane. I nostri soldati
tornarono uomini liberi solo una volta che, terminato l’ennesimo
raccolto di barbabietole da zucchero in Gran Bretagna, cominciarono a
rientrare in Italia, a piccoli scaglioni, dall’inizio del 1946.
Qualcuno
rimase nel Regno Unito o vi ritornò tempo dopo, come emigrante e
soprattutto in qualità di “sposo di guerra”: infatti, nonostante il no fraternisation,
molti prigionieri avevano nel tempo instaurato relazioni con giovani
donne britanniche, e la conseguenza più evidente di queste storie
d’amore proibite furono i tanti bambini inglesi “brunetti” di cui
scrisse Elena Albertini Carandini, la moglie dell’ambasciatore italiano a
Londra. Frammenti di una storia scomoda per un paese come l’Italia che,
inserito nel dopoguerra nel blocco occidentale, doveva velocemente
dimenticare e far dimenticare il passato fascista.
(Il Messaggero, 28 giugno 2012)
Nessun commento:
Posta un commento