venerdì 29 novembre 2013

La recensione di Shalom: "E nel 1938 gli italiani si scoprirono di pura razza ariana"

«È tempo che gli italiani si proclamino francamente razzisti». Così recitava il Manifesto della razza che nel luglio 1938, dopo una virulenta propaganda sui giornali, ufficializzò la svolta antisemita dell’Italia fascista. Tra settembre e novembre di quello stesso anno il regime passò dalle parole ai fatti, varando le cosiddette leggi razziali che equivalsero alla «morte civile» per gli ebrei, banditi da scuole, luoghi di lavoro, esercito, ed espropriati delle loro attività.
La bella gioventù dell'epoca (universitari, giornalisti e professionisti in erba) rappresentò l'avanguardia del razzismo fascista. Molti di loro avrebbero costituito l'ossatura della classe dirigente della Repubblica, cancellando le tracce di quel passato oscuro. Non a caso, per lungo tempo la persecuzione è stata declassata dalla memoria collettiva, e da una parte della storiografia, a una pagina nera che gli italiani, in fondo «brava gente», avrebbero subìto passivamente.
Per restituirci un’immagine quanto più veritiera possibile dell’atteggiamento della popolazione italiana di fronte alla persecuzione dei connazionali ebrei, Mario Avagliano e Marco Palmieri, nel saggio Di pura razza italiana. L’Italia «ariana» di fronte alle leggi razziali (Baldini & Castoldi), hanno compiuto una ricognizione di un’enorme mole di fonti (diari, lettere, carteggi burocratici e rapporti dei fiduciari della polizia politica, del Minculpop e del Pnf) dal 1938 al 1943.

Ne è emersa una microstoria che narra un «altro Paese», fatto di persecutori (i funzionari di Stato), di agit-prop (i giornalisti e gli intellettuali che prestarono le loro firme), di delatori (per convinzione o convenienza), di spettatori (gli indifferenti) e di semplici sciacalli che approfittarono delle leggi per appropriarsi dei beni e le aziende degli ebrei. Rari i casi di opposizione e di solidarietà, per lo più confinati nella sfera privata. Una microstoria che ribalta il netto giudizio assolutorio degli italiani formulato nel 1961 da Renzo De Felice nella sua Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, che è stato a lungo condiviso da larga parte della storiografia.
Leggendo gli stralci dei documenti d’archivio, dei rapporti di polizia, delle relazioni dei fiduciari del regime, dei diari e delle lettere dei persecutori e delle vittime, pubblicati nel saggio di Avagliano e Palmieri, risulta infatti che complessivamente in quegli anni bui, tra il 1938 e il 1943, milioni di persone si scoprirono di pura razza italiana e i provvedimenti razziali riscossero il consenso maggioritario della popolazione, talvolta convinto, talvolta indotto dall’efficace campagna di propaganda, talvolta infine dovuto a ragioni di opportunismo. E non mancarono episodi di violenza verbale o fisica, soprattutto dopo lo scoppio della seconda guerra mondiale.
L’atteggiamento degli italiani “ariani” contribuì a rinchiudere gli ebrei italiani in un nuovo ghetto, dopo l’emancipazione del Risorgimento. Un ghetto invisibile, le cui mura erano costituite, oltre che dalla privazione dei diritti civili e sociali, dalle umiliazioni, dai gesti di indifferenza e dagli epiteti scritti o verbali subiti da vicini, colleghi, ex amici, fanatici antisemiti, giornalisti e intellettuali. Una pagina nera della storia italiana su cui ancora non si è fatta pienamente luce e che questo libro finalmente disvela con tragica evidenza e con rigore storico.

(Shalom, n. 9, novembre 2013, p. 36)

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