di Daniel Reichel
“Il capo del Governo è dell’avviso che non si debba parlare di ‘razza’, dato che nel nostro Paese nessuna discriminazione è mai esistita in tal senso ma soltanto la discriminazione di cittadini praticanti la religione ebraica”. Il capo del Governo di cui sopra è il generale Pietro Badoglio e le frasi riportate sono contenute nel verbale della riunione del Consiglio dei ministri dell’8 dicembre 1943. E’ il primo tassello per sigillare dentro all’armadio degli scheletri le responsabilità italiane di fronte alla persecuzione ebraica. In quel “soltanto” si palesa l’intento riduzionista che porterà l’Italia a credersi vittima della guerra. In fondo il nostro fascismo fu all’acqua di rose, i cattivi quelli veri erano i tedeschi, i nazisti. Noi siamo italiani, siamo brava gente, non perseguitiamo gli ebrei. Non la pensano così gli studiosi Mario Avagliano e Marco Palmieri, autori del libro “Di pura razza italiana – La reazione degli italiani ‘ariani’ ai provvedimenti contro gli ebrei (1938-1943)”, edito da Baldini e Castoldi (446 pagine, 18,90 euro). Attraverso una ricostruzione paziente e minuziosa, l’incrocio di documentazioni ufficiali, ufficiose, private, articoli di giornali, gli autori sollevano il mantello polveroso e soffocante di ipocrisia che ha ricoperto il nostro paese: gli italiani, chi per ideologia, chi per opportunismo, chi per indifferenza, aderirono alla campagna di discriminazione contro gli ebrei.
“È la dimensione del fenomeno a essere importante – spiega a Pagine Ebraiche il giornalista e storico Marco Palmieri, membro dell’Istituto Romano per la Storia d’Italia dal Fascismo alla Resistenza e della Sissco (Società italiana per lo studio della storia contemporanea) – c’è un’idea diffusa che le leggi razziste del 1938 furono poco applicate in Italia, ma non è così e a raccontarlo ci sono le circolari ministeriali, le rimozioni documentate degli ebrei dai posti di lavoro, le zelanti lettere di dirigenti scolastici. Un terreno antisemita preparato da una cam- pagna mediatica potente e aggressiva portata avanti da tutti i giornali, da quelli locali ai grandi quotidiani nazionali”. Il libro appare come un grande termometro dell’Italia fascista e sfrutta le centinaia di circolari del ministero, informative delle spie dell’Ovra, degli emissari del Partito nazionale fascista per ricostruire il quadro del sentmento degli italiani di fronte all’antisemitismo. Lo stesso materiale che Mussolini, nel suo essere totalitario, raccoglieva per controllare gli animi della popolazione, un’informazione di massa e dalla massa. Tutto veniva tenuto sotto controllo e da queste documentazioni emerge un volto dell’Italia diverso da quello che verrà poi dipinto nel dopoguerra. Scandagliando un “paniere di fonti”, nella definizione di Palmieri, gli autori mettono insieme un imponente archivio di prove della pervasività della dialettica antisemita nei diversi strati della società italiana. Prove che in un ipotetico processo avrebbero inchiodato l’imputato Italia alle sue responsabilità. “Ma noi non abbiamo avuto una nostra Norimberga – sottolinea Avagliano, anche lui sia storico che giornalista – il nostro processo di epurazione del fascismo è stato una barzelletta, una struttura intera ha praticamente proseguito indenne dal regime alla Repubblica”. Un esempio? Il caso di Gaetano Azzariti, presidente del Tribunale della Razza, che nel 1957 fu nominato presidente della Corte Costituzionale. Un garante perfetto, verrebbe da dire, per i principi democratici enunciati dalla nostra Costituzione. Nemmeno gli intellettuali faranno sentire la loro voce. Emblematiche le affermazioni – riportate nel libro – di Norberto Bobbio: “Nella città dove allora insegnavo (Padova), durante la guerra, apparve nel bar che frequentavo un avviso che proibiva l’ingresso agli ebrei. ‘Adesso strappo quel cartello’, dissi fra me e me. Ma sono uscito senza averlo fatto. Non ne ho avuto il coraggio. Quanti atti di viltà, di cosciente viltà, come questo abbiamo commesso allora?”. Purtroppo non fu solo passività ma furono tanti gli episodi di cinica e entusiastica adesione da parte dei diversi settori della società. “Difficile commentare – riporta Palmieri – l’atteggiamento di alcune maestre di scuola che si accaniscono nei confronti di bambini della propria classe perché ebrei. Altro capitolo doloroso è quello dei suicidi”. Il libro infatti riporta infatti le terribili storie di ebrei che, spinti dalla disperazione e oppressi dalla persecuzione quotidiana, arrivano fino all’estremo gesto. “La diffusione delle voci sui suicidi per disperazione – scrivono gli autori – è tale che la polizia si sente in dovere di spiegare che ‘sono messe in giro dagli stessi ebrei, o da ariani filo- ebrei. Ogni tanto – per esempio – si sente dire del suicidio di qualche ebreo, e poi il giorno dopo… lo si vede invece girare, sanissimo per la città! Lo scopo, è evidentemente quello di allarmare, suscitando l’indignazione del pubblico contro il Regime’”. Non si sottraggono alla campagna diffamatoria i giornali, dal Corriere della Sera a La Stampa, fino al Gazzettino, dove compaiono, in un bombardamento costante, articoli al vetriolo contro il traditore giudeo. Ed è il caso di dire “scripta manent”, perché l’operazione di Avagliano e Palmieri si argomenta su pagine stampate dei giornali così come di materiale coevo, raccolto attraverso una ricerca durata oltre due anni nelle sezioni dell’archivio di Stato disseminate nel paese. “Dal punto di vista storiografico – riflette Palmieri – un lavoro diretto sulle fonti ti mette al riparo da eventuali smentite”. E così quegli scheletri chiusi nell’armadio della memoria italiana, riprendono forma, vengono fuori in attesa che via sia una presa di coscienza collettiva sulla partecipazione alla discriminazione e persecuzione antiebraica. L’opera di Avagliano e Palmieri è un passo importante in questo senso, ora davvero non ci si può più nascondere per procedere a una autoassoluzione.
(Pagine Ebraiche, dicembre 2013)
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