di Mario Avagliano
Nei due anni tragici di
Salò e dell’occupazione tedesca del centro nord dell’Italia, numerosi italiani si
prestarono ad essere “volenterosi” carnefici dei loro connazionali ebrei. La retata
a Venezia del 5 dicembre 1943, ad esempio, fu condotta da poliziotti,
carabinieri e volontari del ricostituito partito fascista. E almeno la metà
degli arresti degli ebrei poi deportati ad Auschwitz e in altri Lager fu opera
di italiani, senza ordini o diretta partecipazione dei tedeschi.
A ricordarcelo, con un
agile e documentato saggio pubblicato da Feltrinelli, è Simon Levis Sullam, professore
di Storia Contemporanea presso l'Università Ca' Foscari di Venezia, in I carnefici italiani. Scene dal genocidio degli ebrei, 1943-1945 (pp. 150), il cui titolo rimanda volutamente
a quello del saggio di Goldhagen, "I volonterosi carnefici di
Hitler", che ha riaperto la questione sulla responsabilità dei tedeschi (e
non solo dei nazisti) nella Shoah.
Anche dopo l’armistizio, l’Italia non rimase “al di fuori del cono d’ombra dell’Olocausto”
e accanto ai giusti e ai salvatori, vi furono purtroppo tanti persecutori. Nel
libro, oltre che delle responsabilità degli apparati dello Stato e degli uomini
di partito, ci si occupa fra l’altro del ruolo dei delatori, che non furono
solo fascisti convinti ma anche semplici civili, quasi sempre per motivi di
soldi. E perfino alcuni ebrei, come il triestino Mauro Grini, che tra Trieste,
Venezia, Milano identificò e denunciò un migliaio di ebrei ("anche di
più" - si vantava) dietro lauti pagamenti, e la romana Celeste Di Porto.
(L'Unione Informa e Moked.it del 24 febbraio 2015)
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