di Enrico Zuccaro
Con
Vincere e Vinceremo, l’ormai
collaudato binomio Avagliano-Palmieri prosegue nella sua opera di rigorosa revisione della nostra storia nazionale per
troppo anni intrisa di tanta retorica e luoghi comuni.
Tra
questi ultimi quello secondo cui gli
italiani non vollero e sopportarono a
malincuore la decisione del fascismo di entrare in guerra nel 1940 a fianco
dell’allora Germania nazista.
In
realtà le cose andarono diversamente, perché tanti italiani vollero la guerra,
salvo poi pentirsene, come gli autori dimostrano non attraverso l’analisi dei
documenti ufficiali, bensì tramite una lettura attenta, critica e ben
contestualizzata di centinaia di lettere di combattenti, relazioni di polizia,
carabinieri, spie e fiduciari dell’ occhiuto apparato repressivo del regime
fascista.
La
storia propostaci dagli autori è quindi una storia scritta più che mai dall’interno, una storia di donne e uomini che combatterono e soffrirono
tra il 1940 ed il 1943, UNA STORIA POTREMMO DIRE “EMOTIVA”, come ci suggerisco gli autori nella loro
introduzione, ma che sin dalle prime
pagine assume l’autorevolezza di un analitico saggio sull’opinione pubblica degli italiani di allora.
Va
da sé che ciò che gli autori ci propongono è quanto risulta dall’esame di posta accuratamente passata al vaglio della
censura, come avveniva, per ovvi motivi di sicurezza, in tutti gli eserciti di
allora.
Nondimeno
il quadro che ne risulta spicca per originalità
di analisi e per veridicità.
In
nove capitoli per un totale di 313
pagine, gli autori ripercorrono i tre anni e tre mesi che intercorrono dal
10.06.1940 (entrata in guerra) alle
giornate del 25.07. ed 8.09.1943, che
notoriamente segnano la caduta del fascismo e la firma dell’armistizio con gli
Alleati.
Grazie
alla lettura della corrispondenza inviata dai militari, gli autori scandagliano
l’animo degli italiani che in 3 anni e tre mesi appunto passano dall’adesione
entusiastica alla guerra, alla disillusione, al malcontento ed infine alla
avversione ed all’ antifascismo.
E
la posta- da sempre considerata forse in chiave troppo sentimentale solo come
momento di malinconico sfogo e di struggente
nostalgia- diviene invece
specchio di un intero paese, suggerendo al lettore numerose chiavi di lettura.
La
prima, intorno a cui ruota un po’ tutto il libro, è quella dell’analisi dei
molteplici aspetti del consenso al
regime, e soprattutto al suo capo. Un
consenso chiaramente indotto, diremmo fabbricato (come dalla nota monografia di
Cannistraro; “La fabbrica del consenso”) da
diciotto anni di propaganda martellante, attuata dal PNF, dal regime e
dalle sue organizzazioni satelliti (dopolavoro ecc.) in una sorta di tentativo
di controllo di ogni settore della vita degli italiani.
Un
consenso in cui però non mancano note di sincera ammirazione, talvolta
sconfinanti in un vero e proprio culto della personalità di Mussolini,
DESTINATARIO DI MOLTE LETTERE DI SOLDATI e visto come il capo indiscusso e
indiscutibile, che ha sempre ragione che
non sbaglia mai e che soprattutto, quando le cose vanno male su qualsiasi
fronte, è ignaro di quanto sta accadendo perché incolpevole vittima degli
inganni dei gerarchi e sottoposti.
Dall’esame
delle lettere riprodotte nel testo scaturisce, ancora, con chiarezza
cristallina, la periodizzazione del consenso al regime ed il suo progressivo
deteriorarsi, il suo andamento ondivago perché connesso alle mutevoli sorti
degli eventi bellici, sin dai primi mesi di guerra infauste per le armi
italiane.
Gli
umori che traspaiono da quanto
scrivono i nostri soldati non sfuggono
agli zelanti censori, né ai Carabinieri,
né alla polizia, né ai servizi segreti. Mai i loro rapporti, che pure giungono
sino alle più alte sfere del regime fascista, pensiamo ai cosiddetti
“Promemoria per il duce” nulla producono, all’ infuori della segnalazione di questo o quel militare alle competenti
autorità di polizia o al Tribunale speciale per la difesa dello Stato.
Una seconda chiave di lettura-
strettamente connessa alla prima - è quella relativa alle opinioni che i nostri
militari hanno dei loro nemici, così come le troviamo espresse nelle loro lettere.
Smentendo,
qualora ce ne fosse ancora bisogno,
l’adusato clichè dell’italiano buono
contrapposto al tedesco cattivo, l’immagine
del nostro soldato che traspare dalle lettere riportate nel testo è quello di
un soldato razzista con il nemico, che talvolta ammira il crudele alleato
tedesco, che è antisemita e consapevole
di tanti stragi perpetrate dai nazisti, anticomunista, o meglio antibolscevico
e feroce col nemico (lettera del
lanciafiammista), specie nella
repressione anti partigiana.
(A
dire il vero si era razzisti anche in altri eserciti; tra gli altri anche in
quello americano, specie sul fronte del Pacifico, nei confronti dei giapponesi).
A
questi due ultimi riguardi (anti bolscevismo e repressione anti partigiana) va riconosciuto
al libro un elevato valore storico-documentale, specie nei capitoli dedicati alla guerra in Russia ed
ai crimini di guerra, non a caso forse tra i più estesi dello intero volume. Sono pagine che ci hanno riportato alla
memoria gli scritti dolentissimi di “Italiani senza onore” di Costantino Di Sante; di “Qui si ammazza troppo poco” di Gianni Oliva, e del più recente “L’Occupazione italiana dei Balcani”, di Davide Conti. Pagine dalle
quali l’onore delle Armi italiane esce indelebilmente macchiato ma che aiutano
a fare senza reticenza alcuna i
cosiddetti conti con il passato, cosa che noi italiani non abbiamo ancora fatto
completamente.
Una terza chiave di
lettura è quella
relativa alle manipolazione delle
coscienze che emerge chiaramente in tante lettere, talvolta con toni anche
grotteschi ma che testimoniano del
lavaggio cerebrale subito da taluni nostri soldati.
E
così capita di leggere di militi che credono alle bombe avvelenate lanciate dal
nemico o che dopo la loro eventuale morte chiedono, dopo la cremazione, di caricare
un proiettile con le loro ceneri e di utilizzarlo contro il nemico.
In
quest’ottica vanno analizzate, in particolare, le lettere che arrivano dal
fronte russo, dove tanti soldati credono di combattere una guerra santa, contro
un nemico senza Dio e perciò barbaro e sacrilego (un po’ come il “Dio lo vuole”
delle crociate ed il Got mit uns tedesco).
Una ultima chiave è
quella di carattere più spiccatamente sociologico.
L’ampio
campione di scritti riportati dagli autori, conferma, purtroppo, che il livello di istruzione media del fante
italiano era la seconda elementare.
Da
qui errori e strafalcioni di ortografia che caratterizzano tutte o quasi le
lettere dei nostri soldati.
Soldati
che continuano ad indirizzare tante loro
missive ai parroci dei loro comuni di
residenza, così come facevano venti anni prima, durante il primo conflitto mondiale
i loro genitori, perché a casa nessun altro sapeva leggere.
E
ciò suona a conferma del non innalzamento dei livelli di alfabetizzazione degli
italiani, specie nelle zone rurali e nonostante i 20 anni di un regime, nelle
parole molto vicino al suo popolo, nei fatti poco attento all’istruzione del
medesimo.
A
proposito delle lettere indirizzate ai parroci, c’è un ulteriore aspetto che
merita di essere sottolineato: l’organicità di parte del clero al regime
fascista, organicità tradotta spesso in incoraggiamenti rivolta ai soldati,
specie a quelli attivi sul fronte russo.
La lettura sociologica della posta dei nostri
soldati si rivela particolarmente interessante, laddove si esamina il circuito
di comunicazione Fronte di combattimento- Fronte interno. E qui paradossalmente
si scopre che in tantissimi casi, non è dalle mura domestiche che giunge
conforto ai nostri soldati, ma che sono piuttosto questi ultimi, talvolta con
incrollabile fede nella vittoria finale, a dare sostegno a chi è rimasto a
casa.
E
ciò la dice lunga sulla qualità del consenso
al regime; una qualità che impallidisce, di fronte alla tenuta del
fronte interno della Germania hitleriana, mantenutosi granitico sino quasi alle ultime settimane di
guerra.
Altro
interessante spunto di riflessione, ancora
in chiave sociologica, è quello che si trae dai giudizi sugli americani
e conseguentemente sul loro esercito, espressi nelle parole dei nostri soldati.
Benché
timorosi della eventualità di scontrarsi con parenti od amici emigrati oltre
oceano, i nostri militari vedono nei
loro coetanei statunitensi degli “sciampagnoni” ), infiacchiti dalla vita
comoda (si vedano in proposito tanti brani del Diario di Ciano), un po’ come gli omologhi inglesi,
definiti con disprezzo “popolo dei 5
pasti”. Si tratta , ovviamente di giudizi intrisi di sconsiderata
superficialità.
Dolenti,
ancora sul versante sociologico, i tanti accenni al
malcostume della corruzione, presenti in tante missive di militari che lamentano
la violazione a scopo di furto dei pacchi loro inviati.…
Gli
ultimi
3 capitoli del libro sono i capitoli della disillusione,
della sconfitta e della presa di coscienza del tradimento ordito dal fascismo
contro l’Italia.
I
terremoti indotti dalle sconfitte in terra d’Africa e tanto più in Russia, avevano
già svelato a tutti l’inadeguatezza del nostro apparato militare dietro il
quale, lo sappiamo tutti, c’è sempre un apparato politico. Tali inadeguatezze
risaltano ancor più quando gli Alleati sbarcano i Sicilia provocando in pochi giorni la caduta
del regime.
Nonostante
tutto, anche dopo il 25 luglio ed il
conseguente sbando, dalle lettere dei nostri militari traspare un sincero e
commovente amor di Patria, una fiducia
ingenua, fino ad apparire quasi inquietante nella ripresa del nostro esercito
sotto la guida del maresciallo Badoglio, successore di Mussolini dopo esserne
stato complice.
Eppure tale amor di Patria non manca di suscitare ammirazione e rispetto.
Giunti
all’ ultima pagina del libro, chi vi parla ha più volte ripercorso le tante
note a matita vergate e i tanti interrogativi suscitati da Avagliano e
Palmieri, convincendosi che “Vincere e
vinceremo” è un libro che non può mancare nella biblioteca degli appassionati
di storia. Un libro cui auguro tutta la fortuna che merita.
(relazione
letta in occasione della presentazione
del volume svoltasi a Ceccano il 31 gennaio .2015)
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