Oggi ricorre il triste anniversario del 17 novembre 1938, giorno in cui venne approvato il decreto legge che sistematizzava le leggi razziali in Italia (clicca qui per approfondire). L'istituzione della Giornata della Memoria del 27 gennaio, giorno di apertura dei cancelli del campo di sterminio di Auschwitz, ricorda la Shoah e tutte le deportazioni, sottolineando in particolare le responsabilità tedesche in questa vicenda.
Tuttavia la persecuzione degli ebrei fu una pagina nera anche della storia d'Italia. Le leggi razziali furono volute da Mussolini e dal fascismo ma furono controfirmate anche dall'altra istituzione allora presente nel Paese, la monarchia. L'atteggiamento prevalente degli italiani di fronte a tali provvedimenti fu quello del'indifferenza e furono molto pochi, anche nelle file dell'antifascismo, quelli che si opposero attivamente e pubblicamente alle leggi razziali. Anche il Governo Badoglio succeduto al Ventennio fascista tardò ad abrogare le leggi razziali, e lo fece solo in conseguenza di una clausola specifica dell'armistizio con gli Alleati. Dopo l'8 settembre 1943, i funzionari della Repubblica Sociale e le bande fasciste collaborarono attivamente con i nazisti alla ricerca e agli arresti degli ebrei sul territorio nazionale e molti degli ebrei poi deportati furono catturati su delazione di loro connazionali italiani.
La nostra proposta è di istituire, come ha fatto anche la Francia, un giorno della Memoria nazionale proprio il 17 novembre, data di emanazione delle leggi razziali nel 1938, come appuntamento annuale collettivo di riflessione sulle nostre responsabilità nazionali.
L’Italia e gli italiani intrapresero autonomamente la persecuzione degli ebrei e la portarono avanti con sistematicità, determinazione ed efficacia come dimostrano le parole delle vittime raccolte nel nostro libro "Gli ebrei sotto la persecuzione in Italia" (Einaudi 2011). Se il tributo di vite umane tra la fine del 1943 e la primavera del 1945 fa parte della storia più generale della Shoah, la persecuzione subita dagli ebrei tra il 1937-38 e il 1943, fatta di umiliazioni, segregazione, marginalizzazione sociale, economica e politica, cacciata dalle scuole e dai posti di lavoro, razzia di beni e proprietà, sofferenze e suicidi, resta una macchia specifica sulla coscienza e sulla storia italiana, su cui troppo spesso e troppo a lungo si è preferito soprassedere.
Dal libro "Gli ebrei sotto la persecuzione in Italia" (Einaudi 2011) di Mario Avagliano e Marco Palmieri
Il 1938 fu un anno cruciale per gli ebrei di tutta Europa. Alla sua vigilia solo la Germania nazista aveva una legislazione antiebraica, mentre nell’estate del 1939 le misure persecutorie antisemite erano entrate nell’ordinamento giuridico di molti paesi: Italia, Romania, Ungheria, Slovacchia, Polonia, oltre all’Austria annessa alla Germania. In Italia le leggi razziali furono varate a partire da settembre, anticipate da una campagna di propaganda sui giornali. Gli attacchi si moltiplicarono rapidamente e riguardarono, anche sul piano personale, industriali, finanzieri, avvocati, medici, giornalisti, ragionieri, artigiani, commercianti, artisti, attori, sportivi e così via, sollevando il tema della grande penetrazione e influenza ebraica nell’economia, nelle professioni, nella società e nella cultura. Grande risalto venne dato anche alle posizioni filo-inglesi del sionismo internazionale, insinuando il sospetto che gli ebrei fossero portatori di antipatriottismo e antifascismo. (...)
In questo clima esacerbato, uno dei primi atti formali dell’antisemitismo di Stato italiano fu l’Informazione diplomatica n. 14 del 16 febbraio 1938, che introdusse un pericoloso ragionamento: «Il Governo fascista si riserva […] di vegliare sull’attività degli ebrei di recente giunti nel nostro paese e di fare in maniera che la parte degli ebrei nella vita d’insieme della Nazione non sia sproporzionata ai meriti intrinsechi individuali ed all’importanza numerica della loro comunità».
Cinque mesi più tardi il dado dell’antisemitismo fu definitivamente tratto quando su «Il Giornale d’Italia» del 14 luglio (datato 15), e il giorno seguente sugli altri giornali, fu pubblicato il documento non firmato intitolato Il fascismo e i problemi della razza, meglio noto come Manifesto della razza, presentato come opera di un gruppo di studiosi sotto l’egida del Minculpop, i cui nomi furono rivelati il 25 luglio da un comunicato del segretario del PNF Achille Starace che impegnava il partito a sostenere le tesi razziste. (...)
Subito dopo il ministero dell’Interno ufficializzò la trasformazione dell’Ufficio centrale demografico in Direzione generale per la demografia e la razza (Demorazza), affidata al prefetto Antonio La Pera, che seguì tutta la fase di gestazione e produzione della normativa antisemita. Contemporaneamente fu avviato anche un censimento di stampo razzista al fine di schedare gli ebrei. La loro compilazione fu uno dei primi atti pratici della discriminazione rispetto agli altri italiani.
A questa prima ondata di provvedimenti fecero seguito le leggi razziali vere e proprie. Il regio decreto legge del 7 settembre 19 38 n. 1381, intitolato Provvedimenti nei confronti degli ebrei stranieri, stabilì il divieto per questi ultimi di fissare dimora in Italia, la revoca della cittadinanza italiana a coloro che l’avevano ottenuta dopo il primo gennaio 1919 e l’espulsione entro sei mesi (misura in parte disattesa per le difficoltà organizzative e burocratiche). Il regio decreto legge del 5 settembre 19 38 n. 1390, intitolato Provvedimenti per la difesa della razza nella scuola italiana, sancì l’esclusione degli ebrei dall’insegnamento e dalla frequentazione delle scuole pubbliche di ogni ordine e grado (solo successivamente venne consentito agli esclusi di frequentare apposite sezioni speciali o scuole create dalle Comunità, assumendo gli insegnanti dispensati dall’incarico, mentre agli studenti universitari già iscritti all’anno accademico 1937-38 non fuori corso, anche se stranieri, fu data la possibilità di completare gli studi).
Un mese più tardi il quadro generale della persecuzione razziale fu ulteriormente delineato quando, nella notte tra il 6 e il 7 ottobre, il Gran consiglio del fascismo approvò la Dichiarazione sulla razza. Il suo impatto fu devastante per gli ebrei, poiché preannunciò l’espulsione dal PNF, il divieto di matrimonio misto, il divieto di prestare servizio militare, l’allontanamento dagli impieghi pubblici, il divieto di possedere o dirigere aziende di una certa dimensione e più di cinquanta ettari di terreno e una speciale regolamentazione per l’accesso alle professioni.
Il Gran consiglio del fascismo introdusse anche la cosiddetta discriminazione – un espediente terminologico, considerando che i veri discriminati erano le vittime della persecuzione – per indicare alcune categorie di persone che sarebbero state in parte escluse dalle misure razziali e cioè i nuclei familiari un cui componente fosse caduto in guerra o per la causa fascista o che avesse conseguito particolari benemerenze di ordine militare (volontario, ferito, decorato) e politico (iscritto al PNF prima del 1923 o subito dopo l’assassinio di Giacomo Matteotti, nel secondo semestre del 1924).
Le disposizioni del Gran consiglio trovarono una sistematizzazione nel decreto legge del 17 novembre 19 38 n. 1728, convertito in legge il 5 gennaio 19 39, col titolo Provvedimenti per la difesa della razza italiana. Dopo aver introdotto la figura giuridica dell’ebreo, la norma ribadiva e aggravava i limiti già previsti dalla Dichiarazione sulla razza, specie alle attività svolte (licenziamento da tutti gli impieghi pubblici e assimilati), alla proprietà privata e alla conduzione di aziende. Gli allontanamenti dal lavoro riguardarono anche i militari, che furono posti in congedo assoluto. Svariati altri limiti e divieti furono stabiliti con successivi provvedimenti, adottati a più riprese tra la fine del 1938 e il 1942.
Molto gravoso fu l’impatto dei divieti sulle attività professionali per le quali era previsto un albo. Gli ebrei furono di fatto estromessi da innumerevoli attività: medico, farmacista, veterinario, ostetrica, avvocato, procuratore, patrocinatore legale, commercialista, ragioniere, ingegnere, architetto, chimico, agronomo, geometra, perito agrario, perito industriale. L’esclusione riguardò pure gli enti operanti nel teatro, nella musica, nel cinema e nella radio che, oltre a licenziare tutti i dipendenti ebrei, annullarono i contratti con gli artisti. Pittori e scultori vennero esclusi dalle mostre, le case editrici cessarono di pubblicare opere di autori ebrei (alcuni riuscirono a pubblicare sotto falso nome), la stampa periodica ebraica fu cancellata e agli ebrei fu perfino vietato di aderire ad associazioni culturali e ricreative, di partecipare a competizioni sportive e di entrare nelle biblioteche (se non discriminati). Solo i deputati e i senatori ebrei (questi ultimi di nomina regia) rimasero in carica.
Di particolare efficacia fu la pulizia etnica nelle scuole e nelle Università, dove l’espulsione coinvolse studenti, direttori e maestri di scuola elementare, presidi e professori, docenti universitari, assistenti e lettori, membri di accademie e società scientifiche, mentre molti libri furono messi al bando. Una profonda ferita, mai del tutto rimarginata, venne così inferta alla cultura italiana, costringendo diversi illustri docenti all’esilio.
Le nuove norme ebbero anche l’effetto di intaccare i patrimoni, annullare i percorsi professionali e pressoché azzerare qualunque attività svolta dagli ebrei. Parallelamente alla persecuzione, infatti, ebbe inizio la spoliazione dei beni e il regio decreto legge del 9 febbraio 19 39 n. 126 stabilì le modalità per l’alienazione dei beni eccedenti rispetto ai limiti imposti, creando un apposito Ente di gestione e liquidazione immobiliare (EGELI).
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