mercoledì 23 novembre 2011

I Mille dopo la Spedizione del 1860: che fine fecero?

Fecero l’Italia. E poi, indigesti e spesso incompresi, continuarono a combinarne di tutti i colori. I Mille di Garibaldi. I Mille dopo la Spedizione del 1860. Già, che fine fecero? Lo racconta il gustoso libro di Paolo Brogi, intitolato La lunga notte dei Mille (Aliberti Editore, pp. 320, euro 19).
Chi finì in Patagonia e chi a Sumatra. Un gruppo di lombardi fu deportato in Siberia, altri sbaragliati in Africa, in molti emigrarono all’estero. Un direttore di giornale fu assassinato dagli anarchici, parecchi chiusi in manicomio, chi si suicidò in un fiume e chi con una rivoltellata, un ungherese ingegnere tentò invano di realizzare grandissimi canali, un tiratore scelto bergamasco si ridusse a cacciar gatti e un suo compaesano risalì l’Italia con un teatrino di marionette. A Roma uno di loro fu il primo sindaco, un altro ormai ultraottantenne aderì più tardi al fascismo, l’unica donna fu ripudiata dal potente marito diventato primo ministro. L’ultimo dei Mille morì nel 1934.


«Mille. E ottantanove. Il più piccolo aveva undici anni, il più vecchio sessantanove. Di donne una sola. In battaglia ne morirono settantotto…Quarantotto erano analfabeti, dieci ebrei, in ventiquattro poi impazzirono, sedici si suicidarono…Tra il 1850 e il 1930 l’America Latina ha accolto quattordici milioni d’immigrati, di cui oltre dieci in Argentina. Tra loro c’era anche chi aveva combattuto per unire l’Italia». Con queste parole Paolo Brogi introduce la storia  dei garibaldini. Per oltre settant’anni, dopo la Spedizione, i volontari garibaldini continuarono a dare filo da torcere.
Vita, morte e miracoli dei Mille, la generazione che non fece solo l’Italia.
Ricostruita per la prima volta la grande diaspora dei garibaldini, la miglior gioventù di allora.
Con Oreste Baratieri sconfitto a Adua, Giuseppe Cuzzi prigioniero in Sudan, Febo Arcangeli nei campi di prigionia dello zar, Carlo Invernizzi sepolto vivo nel terremoto di Messina, Giuseppe Nuvolari contadino e accanito accusatore del nepotismo meridionale, Nino Bixio stroncato dal colera nelle isole della Sonda, Bartolomeo Marchelli grande prestigiatore ed illusionista, Carmelo Agnetta prefetto contro la mafia e altri duecento garibaldini seguiti nelle loro esistenze inquiete.
Le  vicende di un esercito di idealisti e bastian contrari, dibattuto tra colonialisti e di anticolonialisti, interventisti e pacifisti, ministerialisti e aventiniani.
Un affresco dell’Italia unitaria, in cui molti volontari stentarono poi a ritrovarsi.
La diaspora di una generazione che ha fatto da battistrada alle altre venute dopo, fino ad oggi.

Paolo Brogi giornalista, ha lavorato a Reporter, l’Europeo e Corriere della Sera.


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La prefazione di Gian Antonio Stella

«Attraverso mondi di fango, doppi oceani d'acqua e triplici tormenti delle nostre vecchie ossa, azzanniamo accanitamente le viscere ribelli di Mammona sottoterra, a una profondità di 42 metri in una Buca d'Oro di più di 45 chili! Abbiamo avuto il fegato di lottare faccia a faccia con il vecchio Belzebù sul suo terreno. "Ben  fatto o mia covata, ruggì Satana dalla lunga coda, sei un leone di vecchio stampo, come il gallo su un mucchio di sterco"».
Scriveva così, Raffaello Carboni, raccontando la sua corsa all'oro in Australia. Con uno stile più infiammato del suo barbone rosso fuoco, più disordinato dei suoi capelli arruffatissimi, più caotico della sua vita. Vita garibaldina. Vita presa d’assalto facendo mille cose e mestieri diversi. Lo studente di musica nelle natie Marche, il sacrestano, il bancario, il cospiratore irredentista a Roma, il rivoluzionario nel nome della Repubblica romana, il docente di italiano esule in Germania, l’interprete in Inghilterra, l'avventuriero nelle miniere dello Stato australiano del Victoria, il giramondo a Calcutta, il pellegrino in Terrasanta e di nuovo il patriota garibaldino nel Regno delle due Sicilie appena strappato ai borboni e poi ancora il funzionario sabaudo a Torino…
Una lunga, incredibile avventura. In un sonetto, che quasi certamente aveva scritto lui stesso per auto-incensarsi ma firmato «Gli amici di Carboni, con stupefatta ammirazione», dopo una serata a casa del futuro primo ministro Benedetto Cairoli, l'unico dei fratelli patrioti ad essere sopravvissuto nel travagliato e sanguinoso cammino verso l'indipendenza, si descriveva come «esperto di viaggi, armi e lingue / inventore della stanza garibaldina / rigeneratore del dramma italiano». E diceva che  lo veneravano l'Italia e il Gange e Albione e l'Etna e il Vesuvio e che la sua fama riecheggiava da Calcutta a Melbourne. Proprio non si capacitava, perciò, di come Adelaide Ristori, l’attrice più celebre dell’epoca, non rispondesse mai alle lettere in cui lui le offriva l’amore e la parte di protagonista nelle sue opere. Di più: come poteva, l’Universo intero, non accorgersi di lui? Ovvio: un letterato «doveva essere un imbroglione per avere successo», infilando «banconote nelle copie delle opere inviate ai critici»!
Eppure, quell’uomo strambo nato a Urbino nel 1817 e morto solo e amareggiato a Roma nel 1875, come dimostra l’affascinante biografia («Raffaello Carboni, garibaldino d’Australia») scritta dall’australiano romanizzato Desmond O’Grady, vaticanista del Sydney Morning Herald, fu davvero un personaggio straordinario. Accesissimo irredentista convinto che gli austriaci fossero «cento volte più barbari dei mussulmani», protagonista della Repubblica Romana del 1849 con un ruolo secondario ma sufficiente a costringerlo a chiedere asilo ad Hannover e poi a Londra, poliglotta in grado di parlare in modo fluente (a quei tempi) inglese, francese, tedesco, spagnolo, Raffaello Carboni  certo si illudeva raccontando a se stesso di essere un grande scrittore. Ma almeno un libro, «The Eureka Stockade», cioè «La barricata di Eureka», è finito davvero nella storia. E’ la cronaca di una rivolta.
Quella che nel 1854 oppose i minatori di Ballarat (Eureka è lì vicino) ai soldati della Regina Vittoria. Una rivolta nata per protestare contro la tassa di 30 scellini imposta a quanti per un mese volevano scavare nel fango (30 scellini fissi: anche se non trovavi niente) ma via via diventata un’altra cosa. Al grido di «Libertà! Libertà!», si affacciarono lì, infatti, le prime rivendicazioni d’identità australiana al punto che uno dei lavoratori, Albert Blak arrivò a leggere una «dichiarazione d’indipendenza». Appoggiata da Raffaello con entusiasmo contro «un governo di tipo austriaco sotto bandiera britannica».
Eppure lì ad Eureka, un posto battezzato con quel grido greco d’esultanza («ho trovato!»), il focosissimo Carboni era finito rompendo proprio con la politica che gli aveva dato tante grane. Voleva solo diventare ricco. Come migliaia di inglesi raggiunti dalla notizia che vicino a a Melbourne era stato trovato un luogo dove «le pepite abbondano come le nocciole in un torrone».
Un impazzimento, scrive O’Grady: «Impiegati. commessi. artigiani, cartisti frustrati acquistavano picconi e vanghe e imploravano gli agenti marittimi per ottenere un passaggio, un qualsiasi passaggio, su una nave diretta in Australia». La Baia di Hobson davanti a Melbourne era piena di navi abbandonate «poiché gli uomini degli equipaggi, pagati due sterline al mese se ne erano andati a cercare l'oro». E «quando il prezioso metallo, caricato su tre grossi carri ciascuno tirato da sei cavalli, era arrivato per la prima volta al Tesoro in William Street, tutti gli impiegati dell'ufficio perizie avevano abbandonato il posto di lavoro alla volta dei giacimenti auriferi». Oro! Oro! Oro! Anche Raffaello lo trovò, nel fango, il suo pezzo di oro giallo. Non quanto sperava, forse. Ma lo trovò. Anche se, a leggere il libro di O’Grady, in cambio di un posticino accanto al Manzoni, al Verga o a Pirandello, avrebbe dato una pepita di un quintale.
Così come avrebbe volentieri rinunciato a tutto per essere tra tre Mille partiti al seguito di Giuseppe Garibaldi dallo scoglio di Quarto il 5 maggio del 1860. Non fece in tempo. Ma raggiunse comunque l'eroe dei due mondi in Sicilia. E fu anzi l'ultimo a vedere vivo Ippolito Nievo. L’autore de «Le confessioni di un italiano» stava salpando da Palermo con il vapore postale «Ercole», la mattina del 4 marzo 1861, quando Carboni arrivò ansimante sulla banchina, si impossessò di una barchetta e a colpi di remi raggiunse la nave prima che uscisse dal porto per consegnare a Nievo alcuni documenti. Per lo scrittore sarebbe stato l'ultimo viaggio. L’«Ercole» affondò davanti alla costa sorrentina con tutti i documenti della leggendaria spedizione garibaldina. Un naufragio terribile. Che privò di storici di carte fondamentali per ricostruire quel passaggio chiave dell'unità d'Italia. Al punto di diventare il primo dei misteri su cui si dilettano gli appassionati di teorie complottarde.
Non c'è, nel libro di Paolo Brogi, la storia di Carboni. Proprio perché il nostro Raffaello non era tra i Mille partiti da Quarto. E non c’è, per lo stesso motivo, Giovanni Crisostomo Martino, che ancora ragazzino lasciò il suo paese in provincia di Salerno per seguire come tamburino Giuseppe Garibaldi e finire anni dopo come trombettiere al fianco del generale George Custer nell'inferno (dal quale si salvò) di Little Big Horn. E così Carlo de Rudio, che prima di essere trascinato lui pure nel massacro del 7° cavalleggeri riuscendo miracolosamente a cavarsela, aveva partecipato a uno degli episodi più eroici del Risorgimento. La battaglia di Rivaldo, sulla strettoia più angusta della valle che da Longarone sale verso Cortina, dove al comando di Pier Fortunato Calvi seimila contadini, pastori, artigiani bellunesi armati di falci, mannaie e forconi erano riusciti a fermare gli austriaci in marcia su Venezia. Tre tra le tante storie a cavallo fra le due epopee italiane oggi quasi rimosse, il Risorgimento e l'emigrazione.
Perché ricordare queste avventure che avrebbero potuto essere inventate da Alexandre Dumas o da Emilio Salgari? Perché non si capisce il Risorgimento se non si capisce che fu prima di tutto la straordinaria avventura umana di migliaia di giovani. Ragazzi dalla testa piena di ideali che spesso partirono per fare l'Italia con i loro professori, come gli universitari di Pisa che andarono a morire a Curtatone insieme, ad esempio, con il professor Leopoldo Pilla, che era un genio della geologia famoso in Europa ma lasciò la pelle in una trincea dove, non sapendo sparare, si dava da fare rifornendo di cartucce i suoi studenti. O come i liceali del «Sarpi» di Bergamo dove, come ha ricordato su Repubblica Paolo Rumiz, riprendendo le ricerche della studiosa Valentina Colombi, «In quaranta lasciano le aule per Garibaldi. Al posto dei voti, c' è scritto "Ito in Sicilia", oppure "Defunto in Sicilia". Una classe perde tredici alunni su 35. Il provveditore scalpita, minaccia bocciature, poi consente il ricupero a dicembre. Alcuni studiano tra una battaglia e l' altra; dopo Calatafimi, vanno a Segesta a vedere le rovine greche…».
Ed è questa che racconta Paolo Brogi: la grande avventura di tanti giovani pieni di entusiasmo che vollero tutti i costi fare l'Italia. E che certo, nella memoria di tutti noi, meritano qualcosa di più che una scritta col nome e il cognome incisa su una lastra con un secolo e mezzo di ritardo al molo di Quarto.

Gian Antonio Stella


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