mercoledì 30 novembre 2011

Mosè il partigiano, una grande storia di Resistenza

di Anna Foa

Il manoscritto che viene alla luce — nel libro Mosè Di Segni medico partigiano. Memorie di un protagonista della Guerra di Liberazione (1943-1944), a cura di Luca Maria Cristini (San Severino Marche, Edizioni della Riserva naturale regionale del Monte San Vicino e del Monte Canfaito, 2011 ) — accompagnato dai contributi di studiosi e famigliari, dopo essere rimasto sepolto per decenni negli archivi di famiglia, è il diario di dieci mesi di guerra partigiana condotta dal Battaglione Mario, appartenente alle Brigate Garibaldi, nella zona di San Severino Marche. Il suo autore, Mosè Di Segni, è un medico ebreo romano, rifugiatosi con la famiglia a Serripola, una frazione di San Severino Marche, in una casa del farmacista del posto, Giulio Strampelli, e subito arruolatosi nella brigata partigiana che operava nella zona, una brigata garibaldina guidata da Mario Depangher.

Il testo è quindi un documento importante non solo per ricostruire le vicende di quel frammento di guerra partigiana, ma anche per ricostruire la storia della partecipazione ebraica alla Resistenza, una storia ancora poco conosciuta e che solo recentemente comincia a diventare oggetto di ricerche e riflessioni da parte degli storici. Mosè Di Segni aveva all’epoca due figli bambini, Frida ed Elio. Un terzo nascerà dopo la guerra, Riccardo, l’attuale rabbino capo di Roma. Ai tre figli di Mosè, Elio, che fa il cardiologo in Israele, Frida, scrittrice, e appunto Riccardo, il Comune di San Severino Marche ha voluto recentemente conferire la cittadinanza onoraria.
Perché la storia di Mosè Di Segni, che ha trovato protezione e salvezza a San Severino ma ha anche dato in cambio la sua preziosa opera di medico e quella di combattente per la libertà, è in realtà quella di un intenso scambio reciproco fra i rifugiati ebrei e gli abitanti di Serripola.
Mosè Di Segni, nato a Roma nel 1903 e morto precocemente nel 1969, era una figura certo non banale. Durante i suoi studi di medicina a Roma, per mantenersi lavorò come cronista giudiziario per «Il Giornale d’Italia». Frequentò da giovane a Roma il circolo sionista Avodà, creato da Enzo Sereni. A Firenze, dove si specializzò in pediatria, frequentò i gruppi sionisti fiorentini, fondati dal rabbino Margulies all’insegna della rinascita di un ebraismo integrale. Qui conobbe colei che sarebbe divenuta sua moglie, e che vi studiava farmacia, Pina Dascali Roth, figlia del rabbino capo ashkenazita di Russe, in Bulgaria, un centro importante della cultura ebraica orientale, città di nascita di Elias Canetti.
Mosè Di Segni fu anche molto legato a David Prato, rabbino capo di Roma dal 1936 al 1938, poi cacciato come sionista e antifascista. Sionista e antifascista egli stesso, era quindi visto con sospetto dal regime, tanto che fu messo sotto sorveglianza dalla polizia segreta fascista. Nel 1936, da coscritto e non da volontario, fu inviato in Spagna come medico militare, ma nel 1938 in seguito alle leggi razziste fu radiato dall’esercito, oltre ad essere licenziato dall’Ospedale Spallanzani dove prestava la sua opera. Consigliere della Comunità romana, fu nel settembre 1943 fra quanti si adoperarono a convincere la Comunità della necessità di spingere gli ebrei romani a nascondersi.
Alla fine di settembre, avvisato da un amico che il suo nome era nella lista degli ostaggi destinati alla deportazione, si rifugiò con la famiglia a Serripola. Erano partiti precipitosamente, senza nulla, tanto che sua moglie tornò il 15 ottobre a Roma a prendere qualcosa dalla loro casa. «Capì — scrive il figlio Elio nel volume — il pericolo incombente», e non si fermò quindi a dormire a casa in quella notte tra il 15 e il 16 ottobre in cui si sarebbe svolta la razzia nazista.
A Serripola, il capofamiglia entrò subito nella colonna partigiana appena formata a svolgervi la sua attività di medico ma anche, in alcune emergenze, di combattente (e per una di queste occasioni sarà insignito nel 1948 di medaglia d’argento al valor militare). Una scelta anomala, direi, da parte di un uomo già maturo, con una famiglia da proteggere in una situazione di grande precarietà e rischio.
A Serripola, la famiglia Di Segni fu protetta e aiutata. Una rete di complicità consentì loro di sfuggire ai rastrellamenti fascisti e nazisti, nascondendosi ora dall’uno ora dall’altro quando il pericolo si faceva imminente. Fin dall’inizio, la loro accoglienza era stata facilitata dall’opera del parroco del luogo, che dal pulpito aveva esortato i fedeli ad accogliere questi rifugiati senza far domande, senza chieder loro perché non frequentavano la chiesa. A sua volta, Di Segni si impegnò intensamente a curare, oltre ai partigiani, anche gli abitanti di Serripola, che lo ripagarono di affetto e riconoscenza, sentimenti di cui resta tuttora memoria. Lo ricorda l’attuale arcivescovo di Ancona e Osimo, Edoardo Menichelli, allora uno dei bambini con cui i piccoli Di Segni giocavano.
Leggendo il memoriale scritto da Mosè Di Segni, si resta colpiti dalla sua forte identificazione con la Patria italiana, per cui il battaglione combatte. È un diario di guerra, in cui non c’è nulla che possa far comprendere che a scriverlo era un perseguitato razziale, un ebreo. Nulla nemmeno sulle motivazioni che lo hanno spinto a entrare nella Resistenza armata, quasi si trattasse di una scelta naturale, inevitabile. Sionista, perseguitato come ebreo, Di Segni non ha alcun dubbio sul fatto di essere sempre e comunque un italiano che si batte per liberare la sua patria, l’Italia, dall’occupazione nazista. Ed è anche questo un tassello significativo di questa storia della partecipazione ebraica alla Resistenza, ancora in gran parte da scrivere.


(l'Osservatore romano – 27 novembre 2011)

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