di Mario Avagliano
Che
tipi quei Mille che fecero l’Italia!
Ribaldi, avventurieri, bastian contrari. In una parola, garibaldini. Dopo la spedizione del 1860, ne fecero di tutti i colori, continuando a scorazzare per il mondo. Chi finì in Patagonia e chi a Sumatra. Chi diventò sindaco di Roma (Luigi Pianciani) e chi aderì ultraottantenne al fascismo (il bergamasco Luigi Bolis). Gli ultimi due dei Mille, Egisto Sivelli, negoziante genovese di filigrane, e Francesco Grandi, docente che aveva scelto la bella Sorrento come sua patria di elezione, morirono nel 1934, tra saluti romani e gagliardetti fascisti.
Ribaldi, avventurieri, bastian contrari. In una parola, garibaldini. Dopo la spedizione del 1860, ne fecero di tutti i colori, continuando a scorazzare per il mondo. Chi finì in Patagonia e chi a Sumatra. Chi diventò sindaco di Roma (Luigi Pianciani) e chi aderì ultraottantenne al fascismo (il bergamasco Luigi Bolis). Gli ultimi due dei Mille, Egisto Sivelli, negoziante genovese di filigrane, e Francesco Grandi, docente che aveva scelto la bella Sorrento come sua patria di elezione, morirono nel 1934, tra saluti romani e gagliardetti fascisti.
Mentre sullo
sbarco a Marsala e sui sei mesi dell’incredibile
impresa nel Sud si sono scritti centinaia di libri di storia, di memorie e di romanzi
e allestiti film e pièce teatrali,
nessuno aveva mai indagato sulla diaspora della migliore gioventù di allora.
Fino al gustoso libro del giornalista Paolo Brogi, La lunga notte dei Mille (Aliberti, pp. 305, euro 19), che ci
regala un pittoresco affresco dell’Italia unitaria, in cui quell’esercito di
idealisti e di anime inquiete stentò a ritrovarsi.
Il 5 maggio 1860, alla partenza dallo scoglio di
Quarto in Liguria, i garibaldini erano mille e ottantanove. Il più piccolo
aveva 11 anni, il più vecchio 69. Quarantotto erano analfabeti, dieci ebrei. Di
donne una sola, Rosalie Montmasson, moglie di Francesco Crispi, che qualche
anno dopo, divenuto potente ministro del regno, la ripudierà con tanto di
scandalo nazionale (Rosalie morirà povera e abbandonata a Roma, nel 1904). Risalendo
la penisola fino alla Campania, le fila dell’esercito delle camicie rosse si
erano ingrossate, fino a superare le 50 mila unità.
Il sciogliete-le-righe del nucleo originario dei
Mille, rimasto quasi intatto dopo la spedizione (in battaglia ne morirono solo
78), iniziò da Napoli, dopo la fuga di re Franceschiello, che si era
asserragliato nella fortezza di Gaeta con le ultime forze militari rimaste
fedeli. La data simbolo è il 6 novembre 1860, quando il re sabaudo, ingrato,
disertò l’appuntamento con Garibaldi davanti al Palazzo Reale di Caserta, dove
il generalissimo aveva schierato dodicimila camicie rosse, che attesero invano
molte ore che Vittorio Emanuele II li passasse in rassegna.
Da quel momento in poi, come si legge nel libro di
Brogi, la sorte dei garibaldini si separò. Se sono note le vicende di
Garibaldi, che finì i suoi giorni in esilio nell’isola di Caprera, e di quei suoi
seguaci il cui astro brillò in politica o nel giornalismo, come Francesco
Crispi e Benedetto Cairoli (divenuti entrambi presidenti del consiglio), Luigi
Miceli (ministro del Regno) e il napoletano Eugenio Torelli Viollier
(l’inventore del Corriere della Sera), si erano perse le tracce della maggior
parte degli altri protagonisti di quell’epopea, che presero strade le più
diverse, quasi mai tranquille e sedentarie. Carmelo Agnetta fu coraggioso
prefetto dello stato contro la mafia. Giuseppe Nuvolari, contadino, divenne uno
dei più accaniti accusatori del sistema del nepotismo meridionale. Bartolomeo
Marchelli si affermò nello spettacolo come grande prestigiatore e illusionista.
Oreste Baratieri fece carriera nell’esercito, anche se fu inglorioso
protagonista della carneficina di Adua del 1896 da parte delle truppe del ras
Menelik, beccandosi le rampogne dell’ex compagno garibaldino Ergisto Bezzi,
ferocemente critico verso le mire coloniali del Paese. Il giornalista Ernesto
Teodoro Moneta fu invece uno dei padri del pacifismo italiano.
La lunga notte dei Mille non fu sempre lieta. Il peso
di aver fatto la storia d’Italia segnò la vita dei garibaldini. Ventiquattro di
loro impazzirono e furono ricoverati in manicomio, come Giuseppe Abbagnale e
Giuseppe Fanelli, che morirono nell’ospedale psichiatrico di Napoli. Sedici si
suicidarono, chi in un fiume, chi con la rivoltella, chi in entrambi i modi,
come il friulano Marziano Ciotti: un colpo di pistola in testa e giù nelle
acque del Ledra. Altri furono colpiti dalla sfortuna. Carlo Invernizzi morì
sepolto vivo nel terribile terremoto di Messina del 1908. Nino Bixio, il
luogotenente di Garibaldi, fu stroncato dal colera nelle isole della Sonda.
Altri reduci dei Mille continuarono la lotta per la
libertà in altre parti del globo. Francesco Nullo mise assieme una legione di
circa 600 volontari italiani e francesi, tra cui una sessantina di camicie
rosse, che nel 1863 accorse generosamente ad aiutare gli insorti polacchi
contro l’ukase dello zar Alessandro
di Russia. Perse la vita in battaglia in Polonia, assieme all’altro garibaldino
Stefano Elia Marchetti. Altri garibaldini lombardi, come Febo Arcangeli, Luigi
Caroli e Giuseppe Giupponi, furono catturati e deportati dai russi nel freddo
della Siberia. Giuseppe Cuzzi, dopo aver partecipato alla
battaglia sul Volturno, si unì al leggendario Gordon Pascià in Sudan, subendo anche
lui una lunga prigionia.
Un racconto, quello di Brogi, utile e godibilissimo.
Il ritratto di una generazione di italiani che ha fatto da battistrada
all’Italia di oggi.
(Il Mattino, 29 dicembre 2011)
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