La radiografia, a tratti accorata a tratti impietosa, dei militari italiani partiti per il secondo conflitto mondiale. La fede incrollabile nella vittoria e nella visione del mondo inculcata da Mussolini
di Giovanni Grasso
Credevano, obbedivano e combattevano. Male equipaggiati e peggio armati, ma molto motivati. Capaci di compiere grandi gesti di eroismo, come sull'Amba Alagi ο a El Alaimen, ο di commettere brutali rappresaglie contro la popolazione civile in Grecia ο nei Balcani. Eccidi e crimini di guerra troppo spesso rimossi, la cui riscoperta dovrebbe definitivamente mandare in soffitta il mito degli "italiani brava gente" e gli stereotipi cinematografici del Capitano Corelli e relativo mandolino. La radiografia, a tratti accorata a tratti impietosa, dei militari italiani partiti per la Seconda Guerra Mondiale con una fede incrollabile nella vittoria e nel Duce emerge in questo nuovo e pregevole lavoro di Mario Avagliano e Marco Palmieri, Vincere e vinceremo! (il Mulino).
Α differenza infatti della stragrande maggioranza dei poveri fantaccini della Grande Guerra (contadini semianalfabeti spediti sul Carso a morire come mosche per un ideale di patria lontano e poco ο nulla sentito) le giovani leve dell'esercito italiano, nate negli anni della dittatura e nutrite fin da piccole dalla propaganda del regime, mostravano una piena ed entusiastica adesione ai miti (e ai deliri) di potenza e alle ambizioni di conquista di Benito Mussolini. Ne è riprova il fatto che, mentre la macchina di repressione della giustizia militare, tra il 1915 e il 1918, procedeva a tutta birra con il suo luttuoso carico di fucilazioni e decimazioni, molto meno lavoro (e anche la mano più leggera) ebbero le corti marziali italiane durante i primi tre anni di guerra con le forze dell'Asse.
Avagliano e Palmieri hanno scandagliato con acume e maneggiato con competenza un' enorme mole di documenti che riguardano in qualche modo la psicologia (ο, come si diceva al fronte, il "morale") dei combattenti: rapporti di polizia, relazioni dei comandi ο dei servizi d'informazione, brani di lettere, edite e inedite, dei militari italiani (dagli alti ufficiali ai soldati semplici) partiti per il fronte orientale, la Grecia, i Balcani, l' Africa ο la Russia. Uomini in armi, sedotti dalla propaganda e gettati nella mischia, con cinismo e follia in parti eguali, per assecondare il sogno improbabile di un'Italia fascista seduta con pari dignita al tavolo dei vincitori, quando fu subito chiaro sia a Hitler che agli Alleati che l' esercito italiano rappresentava l'anello debole dell'Asse. Ε quanto sarebbero stati effimeri i primi, sbandierati successi bellici italiani, senza l'apporto determinante dei mezzi, delle armi e degli uomini della Germania nazista.
Dalla lettura dei documenti emerge un affresco corale in cui le inevitabili differenze soggettive (come per esempio sul rapporto con il prepotente alleato tedesco, visto con fastidio, timore ο ammirazione) si stemperano, delineando il vissuto di una guerra con connotati fortemente ideologici, venature esplicite di razzismo e antisemitismo e, specie nella sventurata campagna di Russia, persino spirito di crociata religiosa contro il bolscevismo ateo. Avagliano e Palmieri insistono molto nel sottolineare come la disillusione e il conseguente distacco dei soldati italiani dal regime fascista ebbero sicuramente inizio dalle disfatte militari in Africa e in Russia. Ma per la maggioranza, e a eccezione di menti particolarmente illuminate, fino almeno all'8 settembre e all'invasione tedesca dell'Italia (inizio della guerra civile) fu un processo molto più lento, graduale e tormentato di quanto si possa pensare.
(Avvenire 28 novembre 2014, pagina 15)
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