giovedì 1 gennaio 2015

Italiani al fronte, voci dalla guerra «giusta»



Italiani al fronte voci da una guerra che sedusse il Paese - Italiani al fronte, voci dalla guerra «giusta»
 
di Fabrizio Coscia
 
Attraverso lettere dal fronte della seconda guerra mondiale, Mario Avagliano e Marco Palmieri sfatano, nel saggio Vincere e vinceremo! Gli italiani al fronte, il mito di un popolo al quale il regime fascista avrebbe imposto un conflitto senza consenso.

«Cara ti racconterò di nuovo i disastri che stiamo facendo perché eravamo partiti per andare a bruciare due paesi di ribelli, e così non ti spiego che strage abbiamo fatto». «In questo momento sono reduce da una spedizione contro gli ebrei comunisti, insieme al Battaglione squadristi toscano. Se tu vedessi mamma che macello abbiamo fatto». Basterebbero questi due stralci dalle lettere dei militari durante la seconda guerra mondiale (il primo dal fronte balcanico, il secondo da quello russo), per sfatare, una volta per tutte, il mito degli «italiani brava gente», fondato sulla lunga rimozione storica dei crimini di guerra commessi dal nostro esercito nelle ex colonie africane e nei territori occupati. 
Un mito che, in verità, già da qualche anno la storiografia ha cominciato a smantellare, ma su cui adesso arriva a mettere la parola fine il saggio di Mario Avagliano e Marco Palmieri, Vincere e vinceremo! Gli italiani al fronte (Il Mulino, pagg. 376, euro 25). Il volume raccoglie appunto la conispondenza dal fronte dei militari, semplici o graduati, di tutta Italia, indirizzata a parenti, amici, fidanzate, madrine di guerra, parroci, rappresentanti delle autorità locali o del partito o commilitoni. E in particolare il capitolo dedicato, nella parte centrale del libro, alla partecipazione degli italiani alla guerra ideologica e totale, fatta di crimini, razzismo e repressioni sanguinarie, lascia davvero pochi dubbi sul comportamento dei nostri soldati in guerra, con le terribili stragi in Tessaglia e Macedonia perpetrate tra il 1942 e il 1943, tra saccheggi, omicidi, furti, rapine, stupri e incendi di villaggi, per non parlare della Jugoslavia, o le giornate di «carta bianca» a Podgorica, le deportazioni e gli internamenti in Dalmazia, le rappresaglie nella campagna di Russia, l'aperto disprezzo razziale nei confronti di africani e albanesi, e non solo (non mancano nelle lettere riferimenti ai «maledetti» inglesi, agli americani «negroidi» e «dediti al vizio», ai russi «senza Dio», agli arabi «sporchi e rozzi»).

Queste testimonianze raccolte dai due storici non si limitano però a tratteggiare un ritratto del nostro esercito (e di noi italiani, in fondo) molto diverso da quello che decenni di retorica ci avevano abituati a concepire: il volume, infatti, nel suo lavoro di ricognizione di fonti e documenti coevi, riesce a disvelare anche il «processo di rimozione e oscuramento» sul consenso alle politiche fasciste da parte dei militari italiani, che fu invece, come risulta, pieno e convinto, almeno nel periodo esaminato, dal 1940 (anno della dichiarazione di guerra) al 1943 (alla vigilia dell'8 settembre). 
Nella corrispondenza riecheggiano spesso, da soldati di ogni grado ed estrazione sociale, concetti come patria, vittoria, gloria, eroismo, sacrificio, dovere, o motti della cultura fascista, che dimostrano tra l'altro una tenuta perfino ostinata dei militari sul consenso al regime, anche quando già tra i civili, con il perdurare della guerra, cominciava a serpeggiare un forte malcontento nei confronti di Mussolini che presto si sarebbe trasformato in aperto dissenso. Un dissenso che invece non si manifesterà mai tra l'esercito, se non sotto forma di un «lento declino del consenso», causato dalle delusioni e dai disastrosi fallimenti delle campagne militari, mai sfociato però in esplicito «antifascismo». 
E questo perché il mito della vittoria, accompagnato dal mito personale di Mussolini e della «guerra giusta» e «santa», non verrà mai meno nei mostri soldati, nemmeno di fronte all'evidenza fallimentare delle sorti belliche dell'Italia, almeno fino al 25 luglio 1943, ealla tragica deriva della guerra civile. Così non stupisce che, tra i tanti stereotipi storiografici che questo saggio contribuisce a demolire, ci sia anche quello legato al presunto antisemitismo di facciata degli italiani, voluto da Mussolini solo per compiacere Hitler.
 I documenti attestano al contrario, a fronte di qualche manifestazione di solidarietà, numerosi episodi di violenza contro gli ebrei, assalti alle sinagoghe e diffusioni di manifesti discriminatori. Valga per tutti questa inequivocabile relazione del settembre 1941, redatta dal maggiore dei carabinieri Antonio Patruno, capo del Centro del servizio informazioni militare di Trieste, nella quale si avverte che finché gli ebrei «non saranno completamente eliminati, non potremo mai sottrarci al loro controllo e di conseguenza a quello del nemico». 

(Il Mattino, 30 dicembre 2014)

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